martedì 28 maggio 2024

A 50 anni dalla strage di Piazza Loggia: mezzo secolo di vita negata


Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo questo pregevole testo dello scrittore Mauro Bortoletto.

Ecco, è il 28 maggio, sono le otto e mezza; è una giornata grigia, e allora era anche più piovosa di oggi, a Brescia, 50 anni fa esatti: quella pioggia maledetta, che indusse i miei amici a ripararsi sotto il portico di Piazza Loggia, nella posizione dove di solito stavano i carabinieri, che invece si erano spostati proprio per lo stesso motivo.
La sceneggiatura di chi ha preparato la strage, al comando NATO di Verona, prevedeva infatti che una bomba dei comunisti, scesi in piazza contro il neo-fascismo, scoppiasse ammazzando forze dell’ordine, in modo da giustificare una nuova ondata di repressione contro i movimenti di sinistra, così attivi e vivi nell’Italia di mezzo secolo fa, e una stretta autoritaria (pardon, oggi si deve dire illiberale).
Soni le otto e mezza e io mi sto preparando ad uscire per andare alla manifestazione; ho appuntamento in piazza con Giulietta Banzi.
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Soni stato a casa sua, fino a poche ore prima, in Piazza del Foro a Brescia (un palazzo storico della famiglia importante cattolica dei Bazoli, di cui lei è entrata a far parte col matrimonio).
Sono arrivato tardi e abbiamo lavorato assieme fino a dopo mezzanotte, per preparare la mozione della corrente di sinistra della CGIL-Scuola al prossimo congresso provinciale, e ci siamo lasciati dicendoci: ci vediamo domani mattina alla manifestazione.
Io non sono tornato a casa subito, con la mia R4 bianca ho girato inquieto per le vie della città e della periferia, quasi volessi pattugliare, esplorare, raccogliere indizi.
È assurdo, ma una settimana prima un ragazzino neofascista è saltato per aria vicino a Piazza Mercato sulla sua motoretta, con la quale stava trasportando una bomba, che gli è esplosa addosso uccidendolo; il rischio bomba è nell’aria.
Prima di passare da Giulietta, ho finito il mio corso per la licenza media per lavoratori di Lumezzane, in quella città, naturalmente, e mi hanno chiesto: ?Lei va in Piazza Loggia domani mattina? ?non ha paura? che possa esserci una bomba…
Non avevo una paura tale da impedirmi di andare, ma la tensione c’era, e io ho girato un poco in macchina per scaricarla; il giorno dopo avrei letto sui giornali addirittura che una R4 bianca sospetta era stata vista aggirarsi nella zona di via Milano.
Non sapevo coscientemente, io, che in quelle stesse strade proprio allora stavano girando le auto di chi stava portando l’esplosivo per la strage del giorno dopo, che avrebbe ucciso per errore dei manifestanti e non dei carabinieri.
Ecco l’imprevisto che ha cambiato la storia, anche se pare che oggi facciamo capire a ricordare agli italiani il ruolo dei neofascisti nella mezza guerra civile degli anni Settanta e la loro strategia terrorista stragista.
Nella coscienza pubblica è rimasta solo, a comando, la memoria del terrorismo rosso, che peraltro era mirato e non compiva stragi indiscriminate.
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Sto dunque per andare alla manifestazione, quella mattina del 28 maggio di cinquant’anni fa, per incontrami proprio con qualcuno di quegli amici che sarebbero morti lì, quando suona il campanello:
Sono alcuni miei alunni di terza media della scuola di Barbariga, dove ha insegnato l’anno prima; ora frequentano l’ITIS in città e sono in sciopero anche loro per la giornata antifascista; hanno deciso di farmi una sorpresa, venendomi a trovare.
Ecco il secondo imprevisto della giornata, quello che forse mi salva la vita, perché restiamo a chiacchierare per un po’; per andare alla manifestazione c’è tempo, non importa se non arriveremo puntuali, e ci lasciamo soltanto quando dalla mia casa in collina sui Ronchi cominciamo a sentire le sirene delle ambulanze passare.
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Arrivo in piazza trafelato, passando per la galleria; la piazza è già vuota; i manifestanti sono stati sloggiati a manganellate; le autopompe dei pompieri la stanno lavando, cancellando le tracce dell’esplosivo.
Il comandante, che era sotto indagine per una truffa, testimonierà al primo processo il falso, dicendo che l’ordine lo diede dopo l’una.
Io invano cercherò di richiamare l’attenzione sul dettaglio, che dimostra come vi fosse una strategia precisa preparata in anticipo, per evitare che si potesse riconosce la matrice dell’esplosivo, che era probabilmente militare.
Scruverò anche un articolo su questo a Bresciaoggi, a cui allora collaboravo, ma l’articolo fu fatto sparire, con un chiaro avvertimento mafioso.
Ero stato anche intervistato dal TG3, come esponente in vista del gruppo del Manifesto di Brescia, poche ore dopo la strage, per un servizio sulla bomba, che andò in onda due sere dopo, ma le mie dichiarazioni, che invitavano a guardare aldilà dell’ipotesi della strage fascista, alla ricerca di responsabilità di stato, non andarono in onda.
Il loro posto fu preso da quelle più ortodosse, in linea con la lettura miope del PCI prevalente, che accusava i neofascisti soltanto, senza intravvedere le articolazioni di un disegno criminale più vasto, oggi emerso, ma rimasto sostanzialmente irrisolto in tutte le sue articolazioni, anche cinquant’anni dopo.
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Ho raccontato altre volte questi fatti, anche se forse soltanto per accenni, non ricordo bene.
Ecco, si stanno avvicinando le 10 e 15 e io comincio a sentire di nuovo le sirene delle ambulanze, che trasportano il centinaio di feriti e i sette morti ammazzati subito, per qualcuno c’è ancora tempo per morire, in ospedale.
Ora è passato mezzo secolo e io sto qui, guardando il vuoto, e la cosa che più mi colpisce la mente sono questi cinquant’anni passati di vita e di esperienze, di amori, di lavoro, di figli, di viaggi, di impegni, di dialoghi e di scrittura.
Sono una vita intera, cinquant’anni di vita, e l’unica cosa che riesco a pensare è che a Giulietta, a Livia, a Giuseppe, ad Alberto, a Clementina, che mi erano più o meno coetanei, e che vivevano con me quegli anni di impegno politico, di lotte e di speranze, anche se da posizioni tutte diverse dalla mia e a volte anche fra loro, questi cinquant’anni preziosi e unici, per ciascuna e ciascuno di loro, sono stati tolti.
Loro sono stati cancellati dal mondo.
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Non è una visione politica che mi stringe il cuore in questo momento: alla sconfitta delle nostre speranze, forse confuse, abbiamo avuto cinquant’anni di tempo per abituarci.
No, è proprio a quelle vite rubate che penso, a quegli universi di esperienze, racconti, riflessioni, amori, che non ci sono stati, che nessuno ci potrà mai restituire, e che non so dire perché sono stati cancellati nel sangue.
Mi restano nella mente le foto in bianco e nero del corpo di Giulietta col fianco scoperto dalla violenza dell’esplosione, di Manlio che piange tenendo la testa di Livia che ha visto saltare per aria mentre si girava per fargli un cenno di saluto da quel portico maledetto, del fratello di Alberto che piange accanto al suo corpo avvolto in una bandiera rossa, scagliato dalla bomba qualche metro verso la piazza, e al suo viso terreo, sbiancato dalla morte.

Mauro Bortoletto

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