sabato 30 gennaio 2010

ASSEMBLEA CONTRO IL RAZZISMO ISTITUZIONALE

DOMENICA 31 GENNAIO 2010 ore 17.00 presso la SALA MORELLI in piazza della Repubblica a CALCINATO ASSEMBLEA PUBBLICA: CONTRO IL RAZZISMO ISTITUZIONALE, DIRITTI UGUALI PER TUTTI! Incontro con alcuni organizzatori della MANIFESTAZIONE PROVINCIALE ANTIRAZZISTA promossa dalle Associazioni Migranti della Provincia per sabato 6 febbraio 2010 a Brescia (ore 14.30 - Piazza della Loggia) Verrà proiettato il documentario “Il tempo delle arance” sulla rivolta di Rosarno. Organizza il Gruppo Libertario Spartaco di Calcinato In allegato la locandina dell'iniziativa con l'appello per la manifestazione provinciale del 6 febbraio prossimo a Brescia.

giovedì 28 gennaio 2010

SI E' SPENTA LA VOCE DI TUTTI I RIBELLI




Oggi è morto a Cornish, negli Stati Uniti, Jerome David Salinger, l'autore di libri immortali come "Il giovane Holden", "Franny e Zooey", "Alzate l'architrave carpentieri", "Seymour" e "Nove racconti".
Se n'è andato d'inverno come le anatre del Central Park, in un giorno ideale per i pescibanana. E' volato giù nella segale nella collina, dalla parte che declina, dopo avere giocato per oltre 91 anni con la vita e con la scrittura. Volerà per sempre sulle ali dei sogni della nostra giovinezza.
Ora prendete i suoi libri, sfogliatene le visionarie pagine, leggete ad alta voce con i vostri amici le sue storie intrise di una sorprendente, vertiginosa purezza! E' tutto quel che resta, tutto quel che va.

mercoledì 27 gennaio 2010

MONOTEMATISMO




Riflessioni sparse sull’incontro di lunedì 25 sul fronte antidiscarica

Dopo quasi tre ore di informazioni, comunicazioni e discussioni, verso mezzanotte è apparso chiaro che importante anche stavolta è provarci. Opposizione integrale a questa nuova discarica per rifiuti classificati come inerti.

L’obiettivo è quello di provare a fermare, oggi come in tutti i casi che Linea Indipendente ha seguito dal 1986 in poi (senza mai riuscirvi, invero) un’altra discarica. Non ci interessa tanto denunciare l’insabbiamento del 2004, verificare i sotterfugi degli anni seguenti e la disinvolta nonchalance con la quale gli amministratori hanno dato il loro assenso. Ciò che ci interessa è (continuare a tentare di) tutelare il territorio.

Il fatto che a suo tempo il sindaco non abbia portato il provvedimento né in giunta né in consiglio comunali è purtroppo acqua passata. Una campagna di resistenza passa ora per altri canali.

La lista Calcinato Migliore giovedì avvierà l’iter d’esame di una decisione altrove già assunta e in parte già profumatamente pagata. E’ necessario che si unisca compatta, presto e bene al Gruppo libertario Spartaco, al Comitato salute e ambiente e a noi

Serve farci su le maniche insieme, assumerci la responsabilità di mettere in campo le nostre passioni, conoscenze e intelligenze. Qui e ora.

martedì 26 gennaio 2010

SULLA DISCARICA DI CALCINATELLO




Si accende il dibattito a Calcinato sulla ormai prossima apertura di una discarica per rifiuti inerti in località Cavicchione. Approvato a fine anno dalla giunta municipale lo schema di convenzione che normerà l’attività dell’ impianto di smaltimento nella campagna di Calcinatello, giovedì 28 gennaio alle ore 20.45 nella sede di via XX settembre 110 la lista Calcinato Migliore promuove un’assemblea per approfondire l’argomento. Frattanto lunedì sera si sono riuniti in seduta congiunta il Comitato salute e ambiente, il Gruppo libertario Spartaco e gli ecologisti di Linea indipendente, che hanno deciso di avviare un processo di informazione alla cittadinanza sui rischi connessi a questo ennesimo insediamento in un’area già satura di attività di questo genere nel giro di poche centinaia di metri, con elevati impatti a carico dell’ambiente.
Il nuovo impianto si propone di smaltire 3.596.000 mc di rifiuti inerti, con un numero di camion indicati per il conferimento dei rifiuti pari a 111 al giorno. La zona circostante inoltre è abitata nelle immediate vicinanze da cascine e abitazioni, e a 1 km e mezzo ci sono le popolose frazioni di Calcinatello e Ponte San Marco. Infine nell’area limitrofa sono presenti, oltre alle case, molte aziende artigianali e industriali che ocupano quotidianamente centinaia di operai e impiegati.

SUL SOPRANNATURALE




Lettera UAAR al ministro Giorgia Meloni

Onorevole Ministro Meloni,
le scrivo in qualità di segretario dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, l’associazione di promozione sociale riconosciuta dal ministero che difende i diritti di quei dieci milioni circa di cittadini italiani che non si riconoscono in alcuna religione o altra credenza nel sovrannaturale.
Ho avuto modo di leggere con dispiacere alcune sue dichiarazioni sulla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche. Avrebbe infatti consigliato a chi si «offende» per la presenza del simbolo cattolico «di prendere in considerazione l’idea di andare a vivere da qualche altra parte del mondo». Avrebbe altresì sostenuto di essere «stufa di vedere burocrati europei che stanno lì a sindacare se si possa appendere un crocifisso nelle scuole».
Onorevole ministro, nessuno di noi si offende per la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche. Non sappiamo quanti cattolici si offenderebbero se trovassero, nelle aule scolastiche, il simbolo dell’UAAR, ma sappiamo che sia il simbolo cattolico, sia il nostro, in un’aula scolastica non ci devono stare. Perché sono entrambi simboli di parte, e dunque inevitabilmente incapaci di rappresentare tutti i cittadini italiani: cattolici, atei, agnostici, cristiani non cattolici e credenti non cristiani.
La presenza del crocifisso contrasta con il supremo principio costituzionale della laicità dello Stato. Costituisce inoltre un condizionamento particolarmente pesante nei confronti di minori: come recita la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, «lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale nel contesto dell’educazione pubblica dove la presenza ai corsi è richiesta senza tener conto della religione».
Onorevole ministro, criticando la sentenza della Corte di Strasburgo lei ha preso le distanze, contemporaneamente, dai valori espressi dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: un documento che l’Italia ha firmato come membro fondatore, e che lo Stato della Città del Vaticano non ha invece mai sottoscritto. Posizioni come le sue non allontaneranno dall’Italia i non credenti: allontaneranno invece, ancor di più, l’Italia dall’Europa, perché la classe politica che la governa sembra incapace di far propri quei valori di civiltà, democrazia, laicità che contraddistinguono gli altri paesi del nostro continente. Paesi dove i giudici non sono considerati «burocrati», ma donne e uomini chiamati a proteggere quei fondamentali valori. Paesi dove, e non per caso, il crocifisso non è quasi mai presente.
Confidiamo che lei si sia semplicemente espressa male, e che non pretenda pertanto di non rispettare i diritti umani. Se invece quanto riportato dagli organi di stampa corrisponde al vero, le consigliamo di prendere a sua volta in considerazione l’idea di andare a vivere in una di quelle parti del mondo (e sono purtroppo ancora tante) in cui la loro negazione è moneta corrente.
Noi rispettiamo le idee e le credenze di tutti, ma chiediamo lo stesso rispetto da chi governa l’Italia e che dovrebbe, per primo, dare l’esempio. Se chi governa l’Italia propone l’allontanamento dal resto della società di chi la pensa diversamente (una misura che, come lei ben sa, in Italia non è più applicata dai tempi del fascismo) allora, per coerenza, dovrebbe contemporaneamente chiedere l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea.

Distinti saluti
Raffaele Carcano, segretario UAAR

lunedì 25 gennaio 2010

ANNICHILITI




vendola stravince le primarie (con il 73%) per la candidatura alle elezioni per la presidenza della regione puglia, stracciando il candidato sostenuto da PD e UDC.
anche a gallipoli straccia l'avversario boccia (684 a 204 voti). saltano i piani del vertice PD per l'alleanza a destra.


LAVORO DIRITTI IMMIGRAZIONE

domenica 24 gennaio 2010

ASSEMBLEA LUNEDI' 25




in sala civica morelli. Il gruppo libertario spartaco, il comitato salute e ambiente calcinato e lineaindipendente si trovano per discutere delle emergenze ambientali e della futura discarica di calcinatello.

appuntamento alle 20.30

mercoledì 20 gennaio 2010

UN ANNO DI LINEA




duecentocinquantotto post in un anno.
seimilacinquecento visite in sette mesi.
buon compleanno linea.

lunedì 18 gennaio 2010

DEL SUPREMATISMO EROICO





ecco il nuovo direttivo del PD calcinatese.

segretario: Noemi Politi

1) Maurizio Campanelli,

2) Elena Bonacini,

3) Guido Massardi,

4)Alessandra Fontana,

5) Maurizio Plebani,

6) Stefania Cavagna,

7) Pierangelo Crottogini,

8) Elisabetta Ponzoni,

9) Valentino Duranti,

10) Claudia Rizzi,

11) Marco Bonacini,

12) Elena Ringhini,

13) Terenzio Mauri,

14) Matteo Ringhini,

15) Michela Savoldini,

16) Angelo Acerbis,
17) Miranda Barbieri,
18) Danilo Zani,
19) Giada Troletti,
20) Fabio Quinzani

domenica 17 gennaio 2010

CRAXI OU LA MEMORIE COURTE DES ITALIENS




Forse Bersani ha fatto bene a non accettare l'invito di recarsi ad Hammamet per la commemorazione del decimo anniversario della morte di Craxi.
Però il biglietto aereo ed il pass, poteva girarli ai compagni di Linea Indipendente, che un paio di giorni al mare li avrebbero fatti volentieri.


[di Philippe Ridet - Le Monde]

420 euros, transport et nuits d'hôtel compris, les trois avions qui sont partis, vendredi 15 janvier, de Milan, Rome et Palerme à destination d' Hammamet (Tunisie) ont vite été remplis. A bord, des fidèles, des nostalgiques de Benedetto Craxi, dit "Bettino". Pour rien au monde, ils n'auraient manqué une visite au cimetière chrétien au pied des murailles de la médina. Ici repose l'ancien président du conseil (1983 à 1987), condamné à plusieurs années de prison pour financement illicite du Parti socialiste italien. Pour échapper à la prison, il a choisi l'exil en Tunisie, où il est mort, il y a dix ans, le 19 janvier 2000.


Mais aux compagnons qui n'ont jamais douté des vertus de celui qui a incarné la corruption de la classe politique à la fin des années 1980 et au début des années 1990 se sont ajoutés cette année trois ministres. Ayant fait leurs premières armes aux côtés de Bettino Craxi, Franco Frattini (affaires étrangères), Renato Brunetta (fonction publique) et Maurizio Sacconi (santé) ont choisi cette fois d'afficher leur fidélité au grand jour.

Dix ans, c'est court pour faire le bilan du craxisme, mais c'est assez long pour oublier ses errances. Les commissions encaissées sur les travaux publics pour financer le parti ? Bettino Craxi passe aujourd'hui pour le seul à avoir payé pour un système de corruption pratiqué par tous. "Le regard des Italiens sur l'oeuvre de Craxi a changé, explique la fille de l'ancien proscrit, Stefania, sous-secrétaire d'Etat aux affaires étrangères et présidente de l'association qui gère les archives de son père. Les réflexions de mon père sur la réorganisation du pouvoir, sur la présidentialisation du régime, sur la réforme du travail, ou encore sur le dialogue Nord-Sud ont pris le pas sur ses problèmes judiciaires. On s'aperçoit que ses exigences d'alors sont encore celles d'aujourd'hui."

Peu à peu émerge l'homme d'Etat. Le jeune politique qui prend les rênes du Parti socialiste à moins de 40 ans, et lui taille une place entre les deux colosses que sont alors le Parti communiste et la Démocratie chrétienne, qui totalisent 70 % des suffrages à eux deux. Le quinquagénaire appelé à la présidence du conseil. Le chef du gouvernement qui réduisit l'inflation et affirma la puissance de l'Italie.

A la Fondation Craxi, dans l'élégant quartier de Parioli, à Rome, Andrea Spiri, le jeune historien qui gère le patrimoine des archives, tient les comptes. 75 thèses de doctorat ont été écrites en 2008 sur Bettino Craxi, et sans doute davantage en 2009. Les demandes des chercheurs pour accéder aux 500 000 documents sont également en hausse. "Plus qu'un intérêt historique, il s'agit aussi d'un intérêt politique, assure-t-il. Toutes les problématiques d'aujourd'hui sont déjà présentes, notamment celle du rapport entre la politique et la justice."

Silvio Berlusconi, que Craxi aida grandement à construire son empire médiatique grâce à des lois sur mesure, ne s'y est pas trompé qui ne veut voir dans la figure de Bettino Craxi qu'un "persécuté". "On voit bien l'intérêt de Berlusconi, lui-même poursuivi par la justice, d'instrumentaliser la figure de Craxi, estime l'historien Andrea Gervasoni, auteur de plusieurs ouvrages sur le leader socialiste. Mais, pour la droite, récupérer la figure de Craxi, c'est aussi se doter de tout un fond idéologique, libéral et social, que le berlusconisme n'a pas su créer."

Les ennemis d'hier, les anciens communistes surtout, dont Craxi a menacé l'hégémonie sans pouvoir la réduire, se disent prêts eux aussi à lui faire une place dans le panthéon de la gauche.

Même la décision de la maire de Milan, Letizia Moratti, d'intituler une place ou une rue de sa ville du nom de l'ancien président du conseil n'a pas provoqué la polémique attendue. Bien sûr, La Ligue du Nord et le Parti des valeurs de l'ancien juge Antonio di Pietro, qui ont construit leur succès sur la dénonciation de la corruption, ont protesté. Ils continuent de fustiger le "démon Craxi", "le voleur", "le fuyard". Mais la manifestation organisée le 9 janvier à Milan contre "une réhabilitation qui est une violence faite à l'Histoire" n'a rassemblé que 300 personnes.

Pour Antimo Farro, sociologue à l'université La Sapienza à Rome, "une partie de l'opinion publique italienne voit désormais Craxi comme un point de repère". "Il y a une nostalgie de la période où Craxi était au pouvoir, soutient Andrea Gervasoni. Nostalgie de la croissance, des débuts de la télévision privée, de la consommation facile." "Mais surtout, insiste l'historien, d'une période où la politique était considérée comme plus sereine." Car l'opération réhabilitation se double d'une remise en cause des enquêtes du pool de magistrats anticorruption qui mit fin à la carrière politique de Craxi, conduisit à la disparition au début des années 1990 de cinq partis politiques, ouvrant une ère de doute dans laquelle l'Italie vit encore.

"A l'époque de Craxi, juge Alessandro Campi, directeur scientifique de la fondation Farefuturo, proche du président de l'Assemblée nationale Gianfranco Fini, il y a une classe politique certes corrompue, mais de valeur. Quinze après, que reste-t-il ? Des élus et des responsables médiocres. A côté d'eux, Craxi reste un géant."

sabato 16 gennaio 2010

ASSEMBLEA PER LA COSTITUZIONE DI UNA RETE DI COLLETTIVI E LISTE SOLIDALI E SOCIALI DELLA PROVINCIA DI BRESCIA




Sabato 23 gennaio ore 14.30

SALA CONSILIARE DEL COMUNE DI PASSIRANO PRESSO LA SEDE MUNICIPALE IN PIAZZA EUROPA


Il nostro territorio vede innumerevoli realtà che, radicate nei paesi, resistono alle politiche liberistiche della destra e del centrosinistra.

Pensiamo sia necessario collegare queste realtà per metter in comune conoscenze intelligenze forze ed iniziative per cambiare i rapporti di forza con il liberismo dominante.

I terreni sui quali pensiamo potrebbe iniziare un confronto sono:

1. la ferma opposizione contro il razzismo e le politiche securitarie,per il rispetto della dignità e dei diritti inviolabili dell'uomo e della donna, per la solidarietà, la pace e il rilancio di un nuovo umanesimo e di rinnovate forme di razionalità

2. la lotta contro le privatizzazioni delle risorse, in particolare dell’acqua

3. la difesa del territorio quale ecosistema di vita al quale tutti apparteniamo e dal quale dipendiamo. Tale sistema non è una fonte inesauribile che può essere consumata, saccheggiata e sacrificata sull’altare del profitto di pochi.

4. l’ampliamento e la re-internalizzazione dei servizi e contro la precarietà del lavoro

Questi semplici e pochi punti sono, a nostro avviso, la base per potere verificare e discutere con tutte le persone appartenenti al variegato arcipelago delle realtà di questo territorio la volontà di dare corpo ad una “rete” quale luogo di coordinamento e confronto per la ricostruzione di un pensiero critico che parte veramente dal basso e dai bisogni delle realtà locali.

Per questa ragione invitiamo: gruppi, associazioni, singole persone ad una giornata di condivisione e confronto


venerdì 15 gennaio 2010

LIBERTA', PRINCIPIO NON NEGOZIABILE




di Enzo Marzo

[tratto dalla rivista Critica liberale, settembre – novembre 2009, volume
XVI, n.167-169, edizioni Dedalo]


 Or siamo giunti alla mèta. Che non è mai il punto più basso, di norma 
irraggiungibile, ma gli si avvicina molto. Come nostro dovere anche quest’anno
tra mille difficoltà presentiamo il “Quaderno laico” in cui, tra l’altro,
registriamo la solita crescita dei comportamenti secolarizzati degli italiani
nonostante la sempre più intollerabile cappa di conformismo filo clericale cui
vengono sottoposti da tutti i media. Quindi nulla di nuovo? Eh! No. Abbiamo la
sensazione che, pur sempre all’interno di una rigida continuità, qualcosa si
stia incrinando. O forse ciò è notato da un occhio giunto al limite della
sopportazione. Eppure mi sembra che mai come in quest’anno alcune constatazioni
di “Critica” abbiano subìto una verifica così lampante, persino eccessiva.

“Critica” in un momento che sembrava trionfante per la Chiesa cattolica (il
suicidio laico nel referendum sulla procreazione assistita) descrisse la
gerarchia romana “sull’orlo di una crisi di nervi”. Fummo considerarti
ottimisti. Negli ultimi mesi molta nebbia si è diradata. Tutto appare un po’
più manifesto. Soprattutto in ordine a due accadimenti: il primo consiste nella
guerriglia di potere all’interno della Chiesa che non sa come evitare una crisi
epocale (da tempo non leggevamo scritti di un papa contro i suoi vescovi o,
sull’“Osservatore romano”, cardinali spararsi a palle incatenate gli uni contro
gli altri) e il secondo nel connubio osceno, ormai visibile anche dai ciechi,
tra la gerarchia ecclesiastica e la nomenclatura politica, causa non ultima
della situazione tragica del nostro paese. Solo in certi periodi del fascismo
si arrivò a una complicità così sordida tra potere politico e Vaticano. Abbiamo
chiarissimo di fronte agli occhi uno spettacolo agghiacciante, che ha l’inedita
e stravagante caratteristica di non scandalizzare più nessuno. O gli scandali
durano un tempo irrisorio.

Ricordo che nel tredicesimo secolo un trovatore, tale Peire Cardenal, scrisse
un sermon che comincia «Una ciutatz fo, noi sai calls», «c’era una volta una
città, non so quale» (purtroppo noi sappiamo quale), in cui dopo un devastante
acquazzone (forse una mitragliata di editoriali di Minzolini) tutti gli
abitanti perdono il senno, tranne uno che si salva perché rimasto rinserrato in
casa (e col televisore chiuso). “Si salva” si fa per dire, perché da quel
momento è costretto a vivere in un perenne malessere dato che i suoi
concittadini, dediti alle azioni più irragionevoli, lo prendono per pazzo
“furioso”.Questa metafora calza, anche perché il povero Cardenal volle
lamentarsi in tal modo della distruzione della cultura occitana ad opera della
Chiesa cattolica. E già che ci siamo, non sfigura qui neppure un’altra
distopìa, ovvero un’utopia negativa, quella di Audigier, poema eroicomico di
poco precedente, ambientato in «un païs mou / ou le gens sont en merde jusques
au cou». Non vi aspettate che lo traduca, e meditate invece sulla nostra
attuale condizione nella fanghiglia dell’insopportabile 24 luglio
berlusconiano. Con, dentro, questi due sgradevoli “malesseri” e, sullo sfondo,
con un invadente paesaggio da “païs mou”, “paese molle”, ci tiriamo su pensando
di poter sottolineare alcuni dati di fatto poco contestabili.

Della complicità tra la destra berlusconiana e la gerarchia romana abbiamo
già accennato. Ma, pur consapevoli da qualche decennio della tenacia del
clericalismo strisciante che attraversa tutta la tradizione comunista e post-
comunista, notiamo con mestizia che il Pd sembra voler accelerare il suo
distacco – sicuramente anche elettorale – dal mondo laico e sottolineare la sua
subordinazione a un togliattismo di maniera. Bersani ha voluto contrapporre
agli argomenti della sentenza del Tribunale europeo dei diritti dell’uomo sul
crocifisso nella scuola pubblica un «buon senso» da strapaese emiliano,
argomento mediocre che allontana una buona parte della sinistra (?) dai valori
della civiltà europea più di quanto non abbia fatto negli anni ’50 il
prevedibile antieuropeismo degli stalinisti del Pci. Quindi passi indietro.
Come passi avanti nella sfacciataggine sono stati compiuti dalla gerarchia
nella “copertura” offerta (con qualche titubamento di facciata) nei casi che
hanno fatto più rumore (Boffo, le prestazioni dell’“utilizzatore finale”,
Marrazzo). La Chiesa corriva per interesse politico con il Padrone e con quella
che è stata definita con crudo termine “mignottocrazia” non ci ha sorpresi.
Eppure ci siamo scandalizzati. Beninteso, non dei comportamenti sessuali degli
individui, che possono vivere come vogliono, ci è del tutto indifferente,ma
dell’insopportabile quantità di ipocrisia che ha allagato il paese. Nel primo
caso (a parte alcuni aspetti specifici della vicenda giornalistica davvero
inqualificabile) la Chiesa di Roma ha esposto tutte le sue lacerazioni,
preoccupandosi ben poco della sostanza della questione che si aggira sempre
attorno a un punto non nuovo in Vaticano: possono l’ipocrisia e la fanatica
devozione alla “forma” e all’“immagine” esaurire qualsiasi questione? Noi qui
abbiamo una sezione intitolata “la malaetica” e un’altra “ipocrisia”. Come può
la Chiesa cattolica sentenziare, ogni pié sospinto, su qualsivoglia questione
etica, spacciandosi come legittima, anzi esclusiva, interprete di norme morali
e di leggi naturali di cui si disconosce la relatività e la storicità, e nello
stesso tempo far finta che il caso Boffo nella sua sostanza non apra alcuna
questione di coerenza? Ugualmente, è davvero irrilevante per la Chiesa che un
politico come Marrazzo avesse ostentato nella sua autobiografia scritta per il
sito della regione Lazio che «la famiglia è la sua vera grande passione… con
Roberta, la donna della sua vita, passa tutto il tempo libero. È cresciuto,
come molti ragazzi della sua generazione, frequentando l’oratorio e la
parrocchia di Santa Chiara»? Nell’oratorio aveva imparato ad essere un politico
così arrogante? Famiglia, oratorio, parrocchia. Non è l’ipocrisia la più
immonda delle immoralità? E, poi, per un pugno di voti in più… Ugualmente,
perché la Chiesa non sconfessa il marcio affaristico di dirigenti di Comunione
e liberazione che fanno collezioni di Ferrari e di intrighi con la criminalità
organizzata?

Sono troppi gli insegnamenti della Chiesa attuale che si distinguono per la
loro ferocia e per l’incuranza dei loro effetti sulla vita umana, per il
disconoscimento del valore della persona, della sua unicità e sovranità su se
stessa, per non iscriverla d’ufficio a quelle “centrali” che nel mondo moderno
sono percepite sempre più come “immorali” e comunque portatrici di valori
crudeli, anacronistici, istigatori dei peggiori e violenti comportamenti umani.
Istigatori di omofobia e complici dell’Aids. Sono troppe le pretese di
monopolio delle coscienze e di neo-potere temporale per poter convivere con la
modernità e i suoi valori fondanti.

La questione gira sempre attorno a una domanda semplicissima: una Chiesa che
si autoaccredita come fonte di Verità rivelata può accettare e far sua la
libertà religiosa? Gregorio XVI fu lapidario contro questo «errore
velenosissimo», Leone XIII argomentò rigorosamente contro la libertà di culto
(«promiscuam religionum libertatem»). In seguito, la debolezza politica del
Vaticano consigliò di mitigare affermazioni così barbare e indusse ad
assecondare lo spirito dei tempi influenzato dall’idea liberale. Ora papa
Ratzinger torna precipitosamente al medioevo, e non possiamo meravigliarci se
alcuni zelanti politici ci fanno precipitare nell’oscurantismo e nel razzismo
con il loro “White Christmas” dedicato alla caccia all’immigrato (il “white”
non è il colore della neve ma più presumibilmente quello delle divise del Ku
Klux Klan). È la fanghiglia che sale. Ugualmente non ci meravigliamo se il
sindaco pd commina multe a chi rispetta una sentenza europea fin troppo ovvia.
Nel paese di Audigier, se i media non informano, se i partiti sono corrivi, se
la Chiesa non si vergogna di ostentare il suo attaccamento a tutti i privilegi
che conserva alla faccia del principio della libertà religiosa, ci meravigliamo
se la Lega porta a passeggio dei maiali a orinare sul terreno destinato alle
moschee o se un sindaco di sinistra (?) trova infamia facendo il
fondamentalista?

Mentre monta il fango lo scontro ideale si fa durissimo. Ma la Chiesa ha già
perduto, se arriva a essere persino blasfema e pur di serbare il privilegio
monopolistico della parete scolastica butta a mare il significato “sacro” del
suo simbolo primario. Ne prendiamo atto. Noi europei siamo per lo stato neutro,
per una neutralità che non è indifferenza bensì assunzione di quel compito
altissimo che è la garanzia attiva sia dell’imparzialità di fronte a tutte le
convinzioni sia del rispetto delle coscienze, in primo luogo di quelle non
adulte. Gran parte degli opinion leaders italiani finché sa solo contrapporre
al riconoscimento del valore della libertà religiosa l’argomento meschino che,
loro, non si sentono offesi di fronte a un crocifisso, presta il fianco all’
obiezione che potrebbe essere loro rivolta da un bambino di sei anni: ma,
invece, vi sentireste offesi se al posto del crocifisso sulla parete ci fosse
la stella di David o la mezzaluna islamica? Oppure: se voi non vi offendete di
fronte alla disuguaglianza sulla parete, siete sicuri che proprio nessuno
potrebbe sentirsi discriminato? Li lasciamo a bocca aperta in attesa di trovare
una risposta non indecente o non uguale a quella del più becero leghista, nel
frattempo facciamo presente che, se non vogliamo fuoriuscire definitivamente
dalla famiglia europea, non possiamo scappare dall’affermazione attiva della
libertà religiosa.

Non soltanto i cattolici hanno i loro “principi non negoziabili”. Anche i
laici li hanno. E la libertà di tutte le concezioni ideali e di tutte le
confessioni religiose di fronte alla legge è uno di questi. Ci offende non il
crocifisso, perdipiù declassato a tradizione non religiosa, insomma due legni
in croce che in un ufficio pubblico sono sempre utili a ricordarci che sotto
quel simbolo si sono nascosti per decenni gli avversari più accaniti dell’
aspirazione a uno Stato unitario italiano, ma ci offende l’arroganza del
privilegio sfacciatamente ostentato come tale. Ci offende che in Italia siamo
così indietro che persino quando un tribunale europeo ci bacchetta sono in
pochi a mettere in discussione le prerogative clericali.

Siamo indietro, ma le prospettive – senza che ne accorgiamo – devono essere
rosee se gli argomenti avanzati dai clericali sono così inconsistenti. Gira da
un po’ un libretto che è abbastanza significativo della debolezza clericale e
dei suoi alleati. Ovviamente proviene da quella fucina indefessa di togliattini
reazionari che è stata l’“Unità”. Capisco che in quest’Italia se c’è un
problema grave non è certo Berlusconi, o la mafia o l’autodistruzione della
sinistra o la povertà o l’incubo del fondamentalismo: bisogna invece
preoccuparsi dei “laici furiosi” che incessantemente producono leggi blasfeme,
che perseguitano e torturano a fuoco lento i cattolici, impediscono loro di
invadere più di ventitré ore al giorno tutti i canali televisivi e che
addirittura hanno messo la mordacchia al papa che per esprimersi è costretto a
qualche samizdat fatto uscire fuori dal Vaticano clandestinamente. Contro la
schiacciante egemonia laicista bisognava trovare finalmente un intellettuale
che con sprezzo del pericolo (non si sa mai, i laici furiosi potrebbero anche
riattivare la ghigliottina così abbondantemente usata da san Pio IX) avesse il
coraggio spudorato di depositare i suoi pensierini su un’intera pagina del
“liberale” “Giornale” di Berlusconi, Feltri e Betulla (pseudonimo di Farina),
tre veri eroi della resistenza antilaicista. Il messaggio campeggia sulla
quarta di copertina: «la religione non è un nemico da annientare ecc.». Saremo
anche “laici furiosi” e «falliti», come sostiene l’autore, ma per trovare
assertori di tali guerresche volontà è preferibile cercare nel campo dei
monoteisti devoti. Ieri, oggi e domani. Per quel che conosco del mondo laico,
non esistono tali caricature. Il liberalismo secolare – come lo chiama Bosetti
– non sta «perdendo la scommessa contro Dio» semplicemente perché i liberali
sono dei gentiluomini che non giocano con chi non conoscono.

Se gli avversari del liberalismo sono questi, possiamo dormire tra due
guanciali. Quel che scrivono di buono è riciclaggio di ovvietà banali copiati
dai bignami americani, quel che scrivono per menare scandalo ed épater les
clercs fa sorridere. Non consola, ma l’ignoranza dei neofiti si dimostra sempre
nel linguaggio. Nella polemica dei neoclericali ancora si fa confusione. Allora
siamo costretti a ripetere come in prima elementare: il “sacro” non è sinonimo
di “chiesa”; l’anti-clericale si contrappone al clericale e non – come si vuole
spacciare sempre – al “credente” o al “cattolico”; la religione non può essere
identificata con la gerarchia di una Chiesa; la laicità non vuole «annientare»
neppure una mosca ma desidererebbe una qual certa separazione tra lo Stato e la
Chiesa; è ridicolo distinguere tra i laici buoni e i laicisti cattivi; che per
parlare di fede è consigliabile abbassare il tono della voce e non mischiarla
con l’esenzione dall’Ici. Ma che noia! Studiate questi concettini e poi passate
in seconda elementare dove scoprirete che il liberalismo è nato prima del
convertito Matteucci e dell’antidemocratico Hayek; che non è vero che il
semaforo rosso – come sostengono molti liberaloidi – offende il nostro spirito
liberale più di un presidente monopolista e corruttore di giudici e di
avvocati, ecc. ecc.; che è pericoloso addentrarsi nei rapporti stato-religione
negli Stati uniti senza quell’adeguata preparazione che ti avverta come sia
azzardato importarli in Europa. Dopo di ciò, potete passare in terza
elementare, dove potete trovarvi in compagnia persino del papa, che ci delizia
con encicliche di contenuto economico zeppe di principi buonisti alla Veltroni,
dimenticandosi che sull’uscio ha lo Ior con le sue truffe e i suoi scheletri
(veri) di papi e di banchieri (a proposito, negli uffici del cardinale Paul
Casimir Marcinkus e del vescovo De Bonis c’era il crocifisso?).

Purtroppo anche per trascuratezza di noi laici, nessuno più a va a “verificare
“ e chiedere conto delle parole. Così lo stesso papa mette insieme liberalismo
e libertinismo, forse confonde il libertinismo con il libertinaggio (un
libertino si mette al rogo, a un presidente del consiglio divorziato si dà la
Comunione), straparla di nichilismo esattamente come se fosse una Gelmini
qualsiasi o un liceale somaro, s’inventa la “sana laicità” quando basterebbe
riutilizzare la più appropriata parola “confessionalismo”. Sparge il termine
“relativismo”, così complesso e polisemico, come un prezzemolo buono per tutte
le minestre. Anche su “natura” e “naturale” si diffonde molto, non immaginando
che sono concetti difficili da maneggiare perché non obbediscono ai nostri
desideri e non stanno mai fermi.

Per finire, se fossimo “furiosi” come ci vogliono descrivere, vorremmo tanti
papi come Ratzinger che per non essere superato corre all’indietro, trovandosi
inevitabilmente in compagnia di gente strana come atei cattolici integralisti,
negazionisti e di teocon che esibiscono in Tv il loro cilicio come il più
fervente adoratore della pagana società dello spettacolo.

Noi assistiamo e aspettiamo il consumarsi di questa velleità d’instaurare un
Medioevo di cartapesta. E rimaniamo fermi a volere ciò che ora sembra tanto
impossibile quanto è ovvio e ragionevole: l’uguaglianza di trattamento, la
libertà di pensiero e di culto, la spoliazione dei privilegi e soprattutto la
fine della pretesa di voler imporre per legge a tutti i cittadini quei valori
(o disvalori) e quegli stili di vita che non si riescono a prescrivere nemmeno
a se stessi.

mercoledì 13 gennaio 2010

LE RAYON VERT SI E' SPENTO PER SEMPRE



[da il Manifesto, 12 gennaio 2010]


Roberto Silvestri
I film «parlati» di Eric Rohmer
È morto uno dei cinque cavalieri della rive gauche. Il più colto, anziano, letterato e old-fashion dei cineasti-produttori della nouvelle vague che hanno cambiato negli anni 60 del secolo scorso il modo di girare, vedere e osservare un film. Tra i suoi capolavori «La mia notte con Maud», «Il ginocchio di Claire», «La marchesa von...» e i più recenti «La nobildonna e il duca» e «Gli amori di Astrea e Celadon»
Se la storia è dialettica, quel che oggi è «conservatore», magari domani sarà sarà moderno e progressista.
È un po' il succo dei suoi sei più celebri film i «racconti morali», compreso quel La mia notte con Maud che lo lanciò nel 1970 (grazie a Trintignant?) nonostante nel film si facesse la scherma con Pascal e il giansenismo nel climax di un vortice erotico: perdere il tempo con un'altra donna, di inebriante giovinezza, quando si è innamorati di un'altra, non è trasgressivo: è importante però cosa avviene nel pensiero, l'essere scaraventati indietro, scoprire incanti dimenticati... E poi. Girare a basso costo, essere sempre padroni dei propri film, variare su strutture fisse, significava, in pieno dominio studio system, tornare alle origini dell'eroico cinema primitivo, roba da conservatori? E già anticipare il «no budget» del digitale, o dare il posto di comando agli operatori e mutarli in produttori, era roba da futuristi? La società «amatoriale» che Rohmer creò con Barbet Schroeder, Les Films du Losange ha dimostrato la vitalità della «nouvelle vague» non moda passeggera ma prefigurazione del nuovo cinema.
Però lo studioso francese Joel Magny (nel catalogo che France Cinema 2005 gli dedicò) ricorda che proprio per colpa di quella sua passatista idea, Rohmer (che si definiva un «cineasta passato alla critica») fu espulso da Les Temps modernes. Spirito «reazionario», il verdetto di Sartre. In realtà, a differenza degli altri 4 cavalieri (Godard, Rivette, Truffaut, Rivette) monsieur Scherér era più anziano, era credente, il meno cinefilo, ostile al flipper («cinema e gioco d'azzardo sono antitetici») e si faceva dare del Lei. Come Pessoa amava nascondere la sua vita privata, cambiava la data e il luogo di nascita, era invisibile nelle conferenze stampa dei suoi lavori e aveva l'ossessione degli pseudonimi, doppi, alias, avatar. Scelse il più nero e provocatore e pre-punk dei giovani scrittori, Paul Gégauff, per esordire. Probabilmente considerava il maccartismo a Hollywood anche come un prepensionamento di cineasti modesti (e un'ottima occasione, lui che era economicamente il più ferrato, per competere col mercato Usa, che tremò e mutò).
«Grand Momo», come lo chiamavano tutti, si azzuffava con Positif, come da noi poi i formalisti, Filmcritica e Cinema e film, con gli aristarchiani e i «contenutisti» e Ombre rosse, ma sul loro stesso terreno: l'amore per Balzac, la cultura angloamericana, i noir, Hitchcock (cui dedicò un saggio). E come il Corneille rilavorato da Straub nel suo documentario impossibile, Othon, Rohmer ha osato riesumare addirittura arcaici spazi aprospettici (Perceval) o la tecnica del puparo siciliano perfino nei suoi moderni «racconti morali», o nella serie ancora più delicata, perché per teenager, «Le commedie e i proverbi». E ancora allestì drammi pastorali in rima del 700 o saghe medievali rivestite dalla sua anacronistica immaginazione (e iconograficamente improbabili). E ha impartito (forte di un trining didattico in tv negli anni 50-60) splendide lezioni da folletto pieno d'humour a giacobini e stalinisti, più attento al punto di vista di sanculotti e zaristi che a giacobini o Pcf. Facendo irritare i più pedanti tra gli studiosi di storia e i militanti (con Gli amori di Astrea e Celadon e Triplo agente, i suoi capolavori finali).
Quello che lo divideva dai Positif era una sua più complessa concezione dell'immagine, dell'organizzazione dello spazio e del tempo visivo (grande lo studio su Murnau), dei suoi misteri (un raccordo sull'asse di Rohmer introduce sempre nell'inconscio dello spettatore forti deviazioni di senso e pericolosi vuoti nella continuità narrativa...) e del suo quoziente di informazione, di etica («la morale è questione di carrellata»), di politicità. L'immagine è la cosa più importante, certo per Rohmer. Togliete il sonoro e lo schermo deve reggersi da solo, senza bretelle. Come aveva insegnato Langlois, il direttore della Cineteca di Parigi. Esempio. Voglio fare un film su un uomo solo che cammina per la città. È possibile? Ci sarà una rivolta in sala? Sarà il primo lungometraggio di Eric Rohmer, Il segno del leone, 1959. Rohmer creerà un altro tipo di pubblico e di pulsioni? Cancellerà le antiche abitudini del pubblico, proprio come la nouvelle vague sarà l'ossatura guida di un nuovo progetto produttivo francese, nonostante i tanti «papà nemici»? Paradossale quella dichiarazione d'intenti da parte di un regista che passa per un «letterato», l'ex allievo dell'Ecole Normale, il saputone del gruppo. Ma non troppo. Lui è della generazione che amava il cinema parlant contro il cinema muet. Personaggi a tutto tondo, non slapstick. Keaton non Felix. Murnau non Chaplin. Ma la parte informativa, del «messaggio» per lui e Bazin non era la parte principale di un film. «Non ho imitato il Rossellini, era troppo pittore, barocco e plastico per noi. Abbiamo imitato più Antonioni, eravamo della sua generazione, e la sua immagine misteriosa e asciutta che ci ha influenzato, aggiungendo l'intrigo...». C'è chi dice che siano la precisione e la spontaneità le doti di un grande attore. Eric Rohmer è riuscito a trasformarla nel metodo integrale della sua coreografia visuale. È dai maestri imitati, Hawks e Hitchcock, che Rohmer ruba l'immagine così plastico-spazialmente controllata (che cattura sentimenti più impalpabili), capace però sempre di captare il raggio verde, una sciabolata improvvisa di improvvisazione, il pizzico di follia: la naturalezza, la spontaneità di Rozier e la sofisticata elaborazione letteraria di Eustache sono Rohmer.

INTERVISTA | di Cristina Piccino
INCONTRI
Un «Triple agent» che amava giocare con misteri e desideri
Un'intervista realizzata a Parigi nel 2005
Questa intervista è stata fatta cinque anni fa, in occasione del lancio di Triple Agente. Avevo incontrato Eric Rohmer negli uffici di Les Films du Losange, la casa di produzione fondata nel 1962 insieme a Barbet Schroeder, 22, avenue Pierre 1er de la Serbie, un quarto piano sul cielo di Parigi. Già allora Rohmer aveva problemi di salute, difficoltà a muoversi, la schiena dolente. Per questo non andava più al cinema, aveva scoperto però la meraviglia del dvd di cui si era subito appassionato per la possibilità che offre di rivedere un film nei dettagli tante volte. Una cosa che in sala è impossibile.
A Venezia, nel 2007, parlando del film che accompagnava, il magnifico Les Amours d'Astrée et de Céladon, adattamento di un frammento del testo di Honoré d'Urfé, aveva detto che dopo sarebbe andato in pensione. Era già una stranezza averlo lì, lui che non amava mostrarsi in pubblico, infatti non compariva quasi mai sulle scene festivaliere lasciando andare da soli i suoi film.
Triple agent, è lui. Rohmer. Il suo film più langhiano mischia le carte e le identità, Rohmer lo aveva fatto sin da ragazzo pubblicando il suo primo racconto, Elisabeth (1946) con lo pseudonimo di Gilbert Cordier. Poi la riservatezza, quasi impossibile incontrarlo, e quell'Eric Rohmer che aveva seppellito per sempre Jean-MarieMaurice Scherer. Si dice pure che nascondesse la sua vera data di nascita, il 4 aprile del 1920. Ancora misteri.
Triple agent, parla del 1936, l' anno in Francia del Fronte popolare e di Leon Blum, del crollo economico e della difficile impasse del partito comunista, della guerra civile in Spagna, della minaccia hitleriana di un nuovo conflitto mondiale. Rohmer lascia apparentemente la Storia fuori campo, nonostante le dichiarazioni d'intenti all'inizio del film con i materiali d'archivio. E punta sul personaggio di Fiodor (Serge Renko), agente della Russia zarista esule a Parigi, che ha rapporti segreti (e lungimiranti) coi servizi segreti sovietici e coi nazisti. Il punto di vista narrante è la moglie, Arsinoé (Katerina Didaskalou), Fiodor rimane un enigma, un mistero hitchckockiano (autore amatissimo da Rohmer), risucchiato in logiche oscure alla sua caustica lucidità.
Anche stavolta come per L' Anglais et le Duc il rischio era l'accusa di essere reazionario. Ma non è una critica che lo ha mai preoccupato dai tempi in cui era direttore dei Cahiers du cinéma , tra il 1957 e il 1963. Il 68 era ancora lontano ma le generazioni dei giovani ribelli già ne contestavano le scelte accusandolo di censurare le intuizioni più radicali. Lo racconta spesso Jean-Marie Straub di quei tentativi e l' inevitabile conclusione è: «C'era Rohmer...».
Cosa l' ha attratta nel personaggio del «Triple agent»?
Forse l'aspetto comico e il fatto che ci fosse un che di assolutamente inverosimile in tutta la vicenda nonostante sia vera. Inoltre mi sono sempre piaciuti i personaggi doppi e qui ne abbiamo addirittura uno triplo. Mi interessava la relazione tra l'agente e la moglie: la storia di una coppia che vive il proprio legame in un reciproco sentimento di sospetto. È un tema che mi affascina, forse è per questo che amo il cinema di Hitchcock Anche se quando ho scritto il libro insieme a Chabrol, ho capito che era lui a avere molte più affinità con Hitchcock di me. Però rivedo spesso i film di Hitchcock e ne resto continuamente ammirato. Ogni volta scopro cose che non avevo notato prima e che mi sorprendono. Non parlerei però di un riferimento o di una ispirazione diretta al suo cinema. Ero consapevole della mia attrazione verso il sospetto ancora prima di scoprire i film di Hitchcock. Direi piuttosto che sia io che Hitchcock che Bresson siamo debitori a Do stojevski. Infatti per il personaggio di Fedor ho pensato a Dimitri dei Fratelli Karamazov, al suo modo di dire la verità o di mentire che somiglia molto a come lo fa lui. ...
Lo definirebbe un film storico?
La fine del film non dà risposte. Come del resto i misteri storici che restano spesso tali. Da un punto di vista narrativo è un bene. Di solito si resta delusi dalla soluzione di un mistero, c'è sempre qualcosa di convenzionale. Il mistero è per me più forte se resta in altri miei film «storici», come La Marquise d' O. (76) e Perceval le Gallois (78) avevo adottato soluzioni diverse. Nel primo caso il decor naturale, nel secondo lo studio. Nessuna di queste era adatta a L'Anglais et le Duc, entrambe non mi permettevano di mostrare una Parigi autentica. Così ho pensato di «inserire » i personaggi dentro a tele realizzate su mia indicazione da Jean-Baptiste Morot e fedeli alla topografia del tempo. È un procedimento antico, Méliès è stato tra i primi a sperimentarlo. Inoltre dieci anni fa, quando ho iniziato a lavorare a quel film, la tecnica digitale non era ancora molto avnzata, il passaggio dal video al 35 millimetri non aveva una buona qualità.Qui avevo pensato alle immagini d'archivio come a una possibile scenografia ...
C'è qualcosa di autobiografico nel suo cinema?
Ho fatto molti film che raccontavano la giovinezza ma non era mai la mia. È qualcosa di impensabile per me. Anche inel caso del Triple agent ho lavorato su un periodo storico che ho conosciuto in prima persona come su altri che erano assolutamente lontani dalla mia esperienza. Il 1936 è un anno complicato. Però non volevo che il film fosse sul 1936, in questo senso non è un film storico ...Mi interessava puntare su una storia e su alcuni personaggi che nel loro rapporto con quanto accade intorno ne sintetizzano le contraddizioni e l' ambiguità.

Rinaldo Censi
IL CRITICO
Lo spazio pieno della scrittura che diventa arte
Prima di iniziare a realizzare film, Eric Rohmer era un professore di lettere in un liceo parigino. Si occupa di cinema, ne scrive fin dalla seconda metà degli anni '40. Dal '48 per la precisione. Collaborerà con varie riviste: Les Temps Modernes, La Gazette du cinéma (fondata dallo stesso Rohmer), La Revue du cinéma, e naturalmente i Cahiers du cinéma. Nel giugno del 1948 esce sull'ultimo numero de La Revue du cinéma, diretta da Jean George Auriol, un suo testo intitolato «Il cinema arte dello spazio». È un testo di grande respiro, accompagnato da una scrittura già matura, piana, classica. Porta la firma di Maurice Schérer: si sa, all'epoca scrivere di cinema era un'attività davvero malvista. Figurarsi per un professore di liceo. Attraverso l'attenta analisi dello spazio operata da diversi cineasti, Keaton, Ejzenstejn, Murnau, Welles, Griffith, Rossellini, il cinema espressionista, Rohmer/Schérer già riflette sulle qualità, sugli elementi e i procedimenti in grado di esplicitare e segnare un'evoluzione del cinema: «I procedimenti di cui farà uso il regista moderno nell'ambito dell'espressione spaziale saranno dunque molto meno appariscenti che vent'anni fa.
È normale che l'evoluzione del cinema, come accade per tutte le altre arti, vada nella direzione di un'economia dei mezzi espressivi. Questa semplificazione può sfociare in un maggior realismo: il merito di Rossellini in Paisà è quello di aver puntato il meno possibile su effetti di montaggio e di aver evitato un eccessivo frazionamento delle inquadrature». È possibile leggere in questo passaggio, non solo un rapporto di filiazione (risuonano qui alcune posizioni sull'evoluzione del linguaggio cinematografico che Rohmer fa sue rileggendo André Bazin), ma soprattutto una sorta di petizione di principio: che cosa sono i film di Eric Rohmer se non l'esemplificazione, la messa in atto di questa idea di cinema? L'esemplificazione appunto del cinema come arte dello spazio.
Non è un caso che tra i cineasti più amati ci sia Alfred Hitchcock (un vero «autore», così viene definito, senza sprezzo del ridicolo, in tempi in cui gli autori erano Dreyer, Chaplin... quando il termine era osteggiato, se avvicinato al cinema hollywoodiano), cavallo di battaglia dei giovani turchi e dei Cahiers du cinéma, su cui Rohmer ha spesso scritto, firmando con Claude Chabrol nel 1957 la prima «scandalosa» monografia a lui dedicata. Hitchcock e i pezzi di torta, certo, ma anche lezioni di mise-en-scène, e l'idea che Hitchcock sia dopotutto un inventore di forme. Avevano ragione loro.
Arte dello spazio: la splendida tesi di dottorato dedicata all'analisi di un altro cineasta amato, Murnau e il suo Faust: L'organizzazione dello spazio nel 'Faust' di Murnau, appunto. Libro mirabile per un film mirabile, dove Rohmer si destreggia nell'analisi dello spazio pittorico, architettonico, e infine filmico. Scenografie, illuminazione, movimenti di macchina: ogni aspetto viene interrogato, declinato con autorevolezza.
Un suo testo intitolato Il gusto della bellezza, darà il titolo ad una raccolta di suoi scritti, pubblicata in Italia e ormai introvabile. Un libro che fa davvero il punto sul Rohmer critico, pur mancando di un testo cruciale come La celluloide e il marmo, saggio controverso che lo stesso Rohmer aveva rifiutato di ripubblicare (le note da aggiungere avrebbero superato la lunghezza del testo). Vi si trovano scritti sugli amati Renoir, Rossellini, Hawks, Hitchcock, ma anche su Frank Tashlin, Nicholas Ray e Isidore Isou (un classicista come Rohmer alle prese con un frenetico lettrista). Politica degli autori, Hollywood, e un tocco di avanguardia. Ogni testo di Rohmer lasciava il segno.

BIOGRAFIA
Le quattro stagioni di uno schermo rivoluzionario
Una vita da cinéphile, divisa fra la saggistica nei «Cahiers» e la produzione filmica
Eric Rohmer (nato a Tulle nel 1920, vero nome Jean-Marie Maurice Scherer) parlando di sé (su Libération) racconta che il primo film visto da bimbo è stato Ben Hur. Negli anni 40, subito dopo la guerra, frequenta a Parigi la Cinémathèque dove scopre i film di Griffith, Lang, Murnau, Chaplin, Eisenstein, Buster Keaton... Nel 1946 inizia a collaborare con la Revue du cinéma, frequenta i cineclub, conduce i dibattiti nelle sale di tendenza del Quartier Latin e lì incontra i suoi futuri conpagni di strada, Chabrol, Godard, Rivette, Truffaut. Tra il '47 e il '51, conosce anche André Bazin e Alexander Astruc. Con loro partecipa alla creazione del cineclub Objectif 49 e dei Cahiers du cinéma. Con l'aiuto di alcuni amici che gli prestano la macchina da presa e un po' di pellicola in 16 millimetri gira due corti, Berenice da Edgar Poe e Sonata a Kreutzer da Tolstoj. Nel '57 diviene caporedattore dei Cahiers che lascerà nel 1963, sotto la spinta modernista della direzione Rivette. Il suo primo lungometraggio, Le Signe du lion ('59), esce tre anni dopo, senza molti riscontri. Nel frattempo, Rohmer aveva iniziato quella che sarà la serie dei «Sei racconti morali» con la Boulangère de Monceau, dove il personaggio principale è Barbet Schroeder, con cui poi fonderà la casa di produzione Les Films de Losange. Dopo le riprese ancora amatoriali del secondo «Racconto», La Carrière de Suzanne ('63), realizza quello che sarà il quarto, in 35 mm, con un allora giovane ma già bravissimo direttore della fotografia, Nestor Almendros, che ottiene un certo successo. Riprende in mano il precedente progetto, La mia notte con Maud, per cui non aveva avuto i finanziamenti. Nel '70 la Warner-Columbia finanzia Le genou de Claire e L'Amour l'après-midi ('72). Nel '75 gira La Marchesa Von O. in Germania e in tedesco, e nel '78 Perceval, le Gallois. Nell'80 torna al cinema amatoriale con La Femme de l'aviateur, primo di una nuova serie, Commedie e Proverbi che comprende: Le Beau Mariage ('82), Pauline à la plage ('83), Les Nuits de la pleine de lune ('84), Le Rayon vert ('86, Leone d'oro a Venezia), L'ami de mon ami ('87). In seguito gira: Quatre aventures de Reinette et Mirabelle ('85), L'Arbre, le Maire et la Médiathèque ('92), Le Rendez-vous de Paris ('94). Tra l'89 e il 97 realizza anche un'altra serie dei Racconti delle quattro stagioni. Le difficoltà a montare la produzione ritornano con L'Anglaise et le Duc (2000) e Triple Agent (2003). L'ultimo film è Les Amours d'Astrée et Celadon, presentato alla Mostra di Venezia nel 2007.


J.L. TRINTIGNANT
«L'ho amato molto, era formidabile e austero»
«Ho veramente amato Eric Rohmer, era molto serio, un uomo austero e formidabile, un grande artista, meraviglioso». Così Jean-Louis Trintignant ha ricordato a Radio Europe 1 il regista francese Eric Rohmer, scomparso ieri a Parigi. L'attrice Marie Rivière che ha interpretato Delphine nel «Raggio verde» (1986, Leone d'oro a Venezia) e ha girato con il regista francese «Racconto d'inverno» (1991), «Racconto d'autunno» (1998) e «La nobildonna e il duca» (2001) ha definito Rohmer «un grande cineasta con un grande cuore, che ha saputo dare chance a tutti, dai tecnici agli attori sconosciuti». Ha ricordato come sia Fabrice Lucchini che lei stessa e Arielle Dombasle erano dei perfetti sconosciuti quando sono stati scelti per i suoi film. «L'abbiamo amato come una persona molto vicina, un parente. È stato il nostro creatore».