martedì 12 gennaio 2010

PERCHE' SONO INNAMORATO DI CARLA BRUNI





Pubblichiamo un’intervista a Aldo Busi a cura di Antonio Gnoli apparsa su la
Repubblica oggi, 12 gennaio 2010, alle pagine 58-59

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Dopo circa due ore di conversazione, dentro un fiume di parole che scorre
nella cucina di casa di Montichiari, un paese del bresciano, Aldo Busi si alza
dal tavolo e si volge verso i fornelli. «Se le va, a questo punto, preparerei
qualcosa da mangiare: salama con gli spinaci. Che dice?». Il tono della voce
non prevede dinieghi. E mentre traffica tra una pentola e l’altra, continua a
parlare. Dice che sono quasi dieci anni che non va più in televisione e che non
rilascia interviste. Ha orrore della mediocrità e del conformismo. Il silenzio
non lo ha arrugginito. Cavalca gli argomenti più diversi con la solita maestria
oratoria. È perentorio e poco incline al dubbio. Ma è anche il miglior talento
narrativo degli ultimi trent’anni. È chiaro che un’affermazione del genere Busi
la considererebbe un insulto. Ma è un fatto che romanzi come Seminario sulla
gioventù, Vendita galline Km 2, Vita standard di un venditore provvisorio di
collant, sono un pezzo importante di storia letteraria.

Ora escono tre racconti molto belli – dal titolo sospiroso Aaa! (edito da
Bompiani, pagg. 160, euro 11) – scritti lui dice con tre sistemi nervosi e in
una sarabanda di stili. Quello conclusivo è una spiritosa lettera a Carla Bruni
nella quale si propone come il solo scrittore che possa adempiere a un
magistero per la first lady francese. Quello di mezzo è una sorta di elogio-
riscatto della figura del march ettaro. Infine, il primo, il più sofferto in
cui si giustappongono vita e letteratura in un paese – l’Italia – torvo e
declinante. Busi si definisce “un cittadino terminale”.

«Guardo il nostro paese con raccapriccio. Non ho più voglia di fare niente
per l’Italia. Ho scritto i miei romanzi bellissimi e a un certo punto ho
deciso: mi sono tolto dalle balle. Via. Dai rumori, dal chiacchiericcio, dalle
pretese di far sognare una nazione che non sogna, non vive, non ha futuro. Mi
sento molto inutile. E se le parlo, se ho deciso per un momento di rompere il
silenzio, non lo faccio in quanto scrittore, ma solo perché continuo ad essere
Aldo Busi».

C’è una differenza tra il Busi uomo e lo scrittore?

«Nessuna, ma la metto in guardia verso quegli scrittori che pensano di avere
la chiave di volta per spiegare i mali del mondo, che ritengono di essere dei
salvatori della patria. Poi li leggi e senti immediatamente che non c’è l’
opera, non c’è il romanzo. Io ho un’opera. Cresciuta nel deserto, nel nulla
italiano. Ma c’è».

Non tutti se ne sono accorti.

«Non sono un populista. Quindi penso che il dovere dell’opera sia di restare
ferma dov’è. Sono gli altri che devono andarle incontro. Il romanzo che va
verso il pubblico non è più un’opera, al più è un’operetta. Tra l’altro
avercene di operette. Neanche queste sono state prodotte negli ultimi vent’
anni. Uno scenario desolante, dove spicca solo la rivoluzione di Internet».

Non è poco, ha cambiato radicalmente il nostro modo di stare nella cultura.

«Certo, ma non in meglio. La lingua è diventata solo comunicazione. È caduto
il senso estetico della lingua italiana e in generale della lingua usata come
sistemazione delle idee. Con l’avvento di Internet la mia opera si è
trasformata in sale».

Appartiene al passato.

«La mia opera è talmente indietro che non è né di ieri né di oggi. È il
domani».

Rischia l’incomunicabilità.

«L’esperienza di un lettore non è comunicabile a un altro lettore. Il passa
parola va bene per le operette. La mia identità di scrittore non è
negoziabile».

Ma i romanzi bisogna pur venderli.

«Non ho mai pensato di vivere di diritti di autore. Alla fine uno come me è
destinato a restare solo. Non ho una famiglia alle spalle che mi protegga. Non
appartengo ai clan, non sono iscritto ai partiti. Da sempre detesto la figura
dell’intellettuale organico. Che cos’è: un suggeritore, un imbonitore, un
servo? Sono disorganico a tutto».

È il suo modo di salvarsi?

«A un prezzo carissimo. Sono due settimane che non esco di casa, che non
incontro nessuno, non vado a cene mondane. Non entro nei ristoranti. Cosa
faccio? Cucino cotechino e lenticchie e metto su pancia».

Cosa la spinge a questa vita da recluso?

«Fuori incontri gente che è convinta di avere la verità in tasca e pensa di
illuminarti. Ma questo non è il paese dei Lumi. Non vedo alcuna speranza di
miglioramento. Per questo ho smesso di scrivere».

Non le manca la scrittura?

«Perché dovrebbe. Quello che avevo da dire l’ho detto. Vengo dalla scuola
severa del grande autodidatta. Non sono il semplice amateur. Lo scrittore è la
coscienza della nazione. Se non è tale non è niente. Ma qui c’è ancora una
nazione?».

Ce lo dica.

«Non le rispondo, non sono un demagogo, non mi rivolgo alle folle. La
letteratura è un fatto elitario. In me non c’è la minima predisposizione al
mercimonio e alla prostituzione».

Eppure nel secondo dei suoi racconti c’è un elogio quasi malinconico di un
giovane prostituto.

«È un lavoro come un altro, del resto non c’è cosa che non sia mercificata.
Se è mercificato il pensiero perché non dovrebbe esserlo un quarto di carne? La
carne umana è la merce più a buon mercato che abbiamo. Non sono gli amanti
prezzolati, le escort, i leccaculo che da noi mancano. E poi, gli uomini e le
donne sono talmente insicuri di sé che è chiaro che stanno solo cercando un
padrone. La mia lotta, quando incontro qualcuno, è restituirgli la stima in se
stesso».

E cosa si aspetta di ottenere?

«Non lo so e non mi importa di saperlo. A volte mi rimproverano di investire
energie sulle persone sbagliate. Ma non ci sono persone giuste. Le persone
sbagliate sono le uniche su cui vale la pena di prodigarsi. Sono le sole
davvero spossessate di sé».

Eccheggia il retaggio cattolico.

«Solo una persona profondamente anticlericale e aconfessionale può essere
buona come me. Io posso essere generoso con un nemico, un cattolico
difficilmente».

È una forma di gratuità più che di generosità.

«È vero perché la gratuità richiede una grandezza che il generoso non sempre
possiede. E poi a me piace stupire».

Cosa significa stupire?

«Dare la sensazione che non stai agendo in base a un istinto di rapina.
Stupire significa costringere qualcuno a ricredersi su di te, su di sé e
conseguentemente sul mondo».

In passato lei stupiva giocando sui suoi gusti sessuali.

«Cosa vuole che le dica: ho praticamente smesso di fare sesso. Sono un
omosessuale ideologico. I maschi cominciano a farmi schifo. All’odore di
palestra, preferisco la castità».

O le donne, visto l’elogio sperticato che ha fatto di Carla Bruni.

«Un’eroina della nostra contemporaneità».

Che cosa l’affascina di queste figure femminili: prima Liala, poi Zsa Zsa
Gabor e adesso la moglie di Sarkozy?

«È un movimento ascensionale. Liala conquista le analfabete e comunque
insegna loro a lavarsela. Zsa Zsa conquista gli uomini. Non fa film ma è la più
grande attrice della vita. La Bruni conquista il potere vero. In lei vedo la
capacità ormai in estinzione di essere virile».

Si spieghi.

«La virilità è un progetto, la femminilità una condizione. Mettendo insieme
queste due cose Carla Bruni ha conquistato una nazione, i francesi sono pazzi
di lei. Non ha compiuto un passo falso. Ha tutta la mia ammirazione».

I detrattori insinuano che abbia fatto tutto per calcolo.

«E allora, dov’è lo scandalo? I critici come al solito non hanno capito che
Carla Bruni ama tanto di più Sarkozy proprio in quanto non lo ama. Troppo
facile amare qualcuno perché lo ami. Prova ad amare qualcuno senza amarlo. È
durissima».

E lei ha amato?

«Ho cercato la merla bianca. Ma avevo già la mia opera e me stesso».

Di se stesso, del suo corpo scrive: il mio è un corpo che non si vendica su
di me.

«Nel senso che sono costantemente aggiornato su di me, anche quando muto,
quando mi trasformo, quando mi travesto».

Inclinazione camaleontica?

«Travestirmi equivale a sentirmi come Gregorio Samsa che Kafka trasforma in
scarafaggio: sono un personaggio che può vivere indifferentemente in un romanzo
o nel mondo».

Che cosa ha fatto in questi anni di silenzio?

«Sono stato benissimo. Non ho fatto una bella mazza di niente. Non ho
scritto, non sono andato in televisione, non ho avuto sfoghi sessuali. In
compenso ho cambiato tantissime stanze di albergo in Europa. Non c’è stata cosa
più bella che staccarsi da tutto e chiudere il rubinetto. Così se mi faranno
fuori non ci sarà nessuno che mi rimpiangerà».

Rimpiangeremmo il suo talento indiscusso.

«Mi hanno fatto il vuoto intono perché sono tra l’altro una persona troppo
spiritosa».

Di sé lei ha scritto in uno dei racconti: sono un ex cameriere con il
complesso di superiorità.

«È vero. Ho avuto la fortuna di non essere figlio di papà, di non studiare
nelle scuole di Stato. Tutti quelli che erano handicap insormontabili li ho
trasformati in grotte di Aladino piene di tesori. E poi, se uno non ha fatto il
cameriere e non ha visto la vita dal basso, o dal sotto di una tovaglia, non
può aspirare al trono».

Lei ha anche detto: si può smettere di scrivere ma non si può smettere di
essere scrittori.

«Essere scrittore è per me possedere un terzo occhio. In questi anni di
voluta inattività si è molto acuito».

Chi è per lei uno scrittore?

«Prenda me, come parlo, come mi muovo, come gestisco il mio corpo, prenda le
mie opere e da lì capirà chi è scrittore e chi non lo è. Non è una cosa di cui
posso vantarmi, perché per il fatto di essere scrittore non me ne torna niente
in tasca».

Tutto accade perché deve accadere.

«Eppure non mi spiego perché le ho rilasciato questa intervista. Ha mai
scritto su di me negli ultimi anni?».

No, dovevo?

«Io nasco respinto. Mio padre non mi voleva, mia madre desiderava una
femmina. Io nasco e già avevo un completino rosa».

Da neonato ha cominciato a scavare l’abisso tra lei e il mondo.

«Preferisco essere respinto che essere accettato, parola davvero miserabile.
Chi siete voi per tollerarmi? Dei lombrichi. Ammettetelo e io vi trasformerò in
draghi volanti. Il segreto è tutto qui».

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