mercoledì 13 gennaio 2010

LE RAYON VERT SI E' SPENTO PER SEMPRE



[da il Manifesto, 12 gennaio 2010]


Roberto Silvestri
I film «parlati» di Eric Rohmer
È morto uno dei cinque cavalieri della rive gauche. Il più colto, anziano, letterato e old-fashion dei cineasti-produttori della nouvelle vague che hanno cambiato negli anni 60 del secolo scorso il modo di girare, vedere e osservare un film. Tra i suoi capolavori «La mia notte con Maud», «Il ginocchio di Claire», «La marchesa von...» e i più recenti «La nobildonna e il duca» e «Gli amori di Astrea e Celadon»
Se la storia è dialettica, quel che oggi è «conservatore», magari domani sarà sarà moderno e progressista.
È un po' il succo dei suoi sei più celebri film i «racconti morali», compreso quel La mia notte con Maud che lo lanciò nel 1970 (grazie a Trintignant?) nonostante nel film si facesse la scherma con Pascal e il giansenismo nel climax di un vortice erotico: perdere il tempo con un'altra donna, di inebriante giovinezza, quando si è innamorati di un'altra, non è trasgressivo: è importante però cosa avviene nel pensiero, l'essere scaraventati indietro, scoprire incanti dimenticati... E poi. Girare a basso costo, essere sempre padroni dei propri film, variare su strutture fisse, significava, in pieno dominio studio system, tornare alle origini dell'eroico cinema primitivo, roba da conservatori? E già anticipare il «no budget» del digitale, o dare il posto di comando agli operatori e mutarli in produttori, era roba da futuristi? La società «amatoriale» che Rohmer creò con Barbet Schroeder, Les Films du Losange ha dimostrato la vitalità della «nouvelle vague» non moda passeggera ma prefigurazione del nuovo cinema.
Però lo studioso francese Joel Magny (nel catalogo che France Cinema 2005 gli dedicò) ricorda che proprio per colpa di quella sua passatista idea, Rohmer (che si definiva un «cineasta passato alla critica») fu espulso da Les Temps modernes. Spirito «reazionario», il verdetto di Sartre. In realtà, a differenza degli altri 4 cavalieri (Godard, Rivette, Truffaut, Rivette) monsieur Scherér era più anziano, era credente, il meno cinefilo, ostile al flipper («cinema e gioco d'azzardo sono antitetici») e si faceva dare del Lei. Come Pessoa amava nascondere la sua vita privata, cambiava la data e il luogo di nascita, era invisibile nelle conferenze stampa dei suoi lavori e aveva l'ossessione degli pseudonimi, doppi, alias, avatar. Scelse il più nero e provocatore e pre-punk dei giovani scrittori, Paul Gégauff, per esordire. Probabilmente considerava il maccartismo a Hollywood anche come un prepensionamento di cineasti modesti (e un'ottima occasione, lui che era economicamente il più ferrato, per competere col mercato Usa, che tremò e mutò).
«Grand Momo», come lo chiamavano tutti, si azzuffava con Positif, come da noi poi i formalisti, Filmcritica e Cinema e film, con gli aristarchiani e i «contenutisti» e Ombre rosse, ma sul loro stesso terreno: l'amore per Balzac, la cultura angloamericana, i noir, Hitchcock (cui dedicò un saggio). E come il Corneille rilavorato da Straub nel suo documentario impossibile, Othon, Rohmer ha osato riesumare addirittura arcaici spazi aprospettici (Perceval) o la tecnica del puparo siciliano perfino nei suoi moderni «racconti morali», o nella serie ancora più delicata, perché per teenager, «Le commedie e i proverbi». E ancora allestì drammi pastorali in rima del 700 o saghe medievali rivestite dalla sua anacronistica immaginazione (e iconograficamente improbabili). E ha impartito (forte di un trining didattico in tv negli anni 50-60) splendide lezioni da folletto pieno d'humour a giacobini e stalinisti, più attento al punto di vista di sanculotti e zaristi che a giacobini o Pcf. Facendo irritare i più pedanti tra gli studiosi di storia e i militanti (con Gli amori di Astrea e Celadon e Triplo agente, i suoi capolavori finali).
Quello che lo divideva dai Positif era una sua più complessa concezione dell'immagine, dell'organizzazione dello spazio e del tempo visivo (grande lo studio su Murnau), dei suoi misteri (un raccordo sull'asse di Rohmer introduce sempre nell'inconscio dello spettatore forti deviazioni di senso e pericolosi vuoti nella continuità narrativa...) e del suo quoziente di informazione, di etica («la morale è questione di carrellata»), di politicità. L'immagine è la cosa più importante, certo per Rohmer. Togliete il sonoro e lo schermo deve reggersi da solo, senza bretelle. Come aveva insegnato Langlois, il direttore della Cineteca di Parigi. Esempio. Voglio fare un film su un uomo solo che cammina per la città. È possibile? Ci sarà una rivolta in sala? Sarà il primo lungometraggio di Eric Rohmer, Il segno del leone, 1959. Rohmer creerà un altro tipo di pubblico e di pulsioni? Cancellerà le antiche abitudini del pubblico, proprio come la nouvelle vague sarà l'ossatura guida di un nuovo progetto produttivo francese, nonostante i tanti «papà nemici»? Paradossale quella dichiarazione d'intenti da parte di un regista che passa per un «letterato», l'ex allievo dell'Ecole Normale, il saputone del gruppo. Ma non troppo. Lui è della generazione che amava il cinema parlant contro il cinema muet. Personaggi a tutto tondo, non slapstick. Keaton non Felix. Murnau non Chaplin. Ma la parte informativa, del «messaggio» per lui e Bazin non era la parte principale di un film. «Non ho imitato il Rossellini, era troppo pittore, barocco e plastico per noi. Abbiamo imitato più Antonioni, eravamo della sua generazione, e la sua immagine misteriosa e asciutta che ci ha influenzato, aggiungendo l'intrigo...». C'è chi dice che siano la precisione e la spontaneità le doti di un grande attore. Eric Rohmer è riuscito a trasformarla nel metodo integrale della sua coreografia visuale. È dai maestri imitati, Hawks e Hitchcock, che Rohmer ruba l'immagine così plastico-spazialmente controllata (che cattura sentimenti più impalpabili), capace però sempre di captare il raggio verde, una sciabolata improvvisa di improvvisazione, il pizzico di follia: la naturalezza, la spontaneità di Rozier e la sofisticata elaborazione letteraria di Eustache sono Rohmer.

INTERVISTA | di Cristina Piccino
INCONTRI
Un «Triple agent» che amava giocare con misteri e desideri
Un'intervista realizzata a Parigi nel 2005
Questa intervista è stata fatta cinque anni fa, in occasione del lancio di Triple Agente. Avevo incontrato Eric Rohmer negli uffici di Les Films du Losange, la casa di produzione fondata nel 1962 insieme a Barbet Schroeder, 22, avenue Pierre 1er de la Serbie, un quarto piano sul cielo di Parigi. Già allora Rohmer aveva problemi di salute, difficoltà a muoversi, la schiena dolente. Per questo non andava più al cinema, aveva scoperto però la meraviglia del dvd di cui si era subito appassionato per la possibilità che offre di rivedere un film nei dettagli tante volte. Una cosa che in sala è impossibile.
A Venezia, nel 2007, parlando del film che accompagnava, il magnifico Les Amours d'Astrée et de Céladon, adattamento di un frammento del testo di Honoré d'Urfé, aveva detto che dopo sarebbe andato in pensione. Era già una stranezza averlo lì, lui che non amava mostrarsi in pubblico, infatti non compariva quasi mai sulle scene festivaliere lasciando andare da soli i suoi film.
Triple agent, è lui. Rohmer. Il suo film più langhiano mischia le carte e le identità, Rohmer lo aveva fatto sin da ragazzo pubblicando il suo primo racconto, Elisabeth (1946) con lo pseudonimo di Gilbert Cordier. Poi la riservatezza, quasi impossibile incontrarlo, e quell'Eric Rohmer che aveva seppellito per sempre Jean-MarieMaurice Scherer. Si dice pure che nascondesse la sua vera data di nascita, il 4 aprile del 1920. Ancora misteri.
Triple agent, parla del 1936, l' anno in Francia del Fronte popolare e di Leon Blum, del crollo economico e della difficile impasse del partito comunista, della guerra civile in Spagna, della minaccia hitleriana di un nuovo conflitto mondiale. Rohmer lascia apparentemente la Storia fuori campo, nonostante le dichiarazioni d'intenti all'inizio del film con i materiali d'archivio. E punta sul personaggio di Fiodor (Serge Renko), agente della Russia zarista esule a Parigi, che ha rapporti segreti (e lungimiranti) coi servizi segreti sovietici e coi nazisti. Il punto di vista narrante è la moglie, Arsinoé (Katerina Didaskalou), Fiodor rimane un enigma, un mistero hitchckockiano (autore amatissimo da Rohmer), risucchiato in logiche oscure alla sua caustica lucidità.
Anche stavolta come per L' Anglais et le Duc il rischio era l'accusa di essere reazionario. Ma non è una critica che lo ha mai preoccupato dai tempi in cui era direttore dei Cahiers du cinéma , tra il 1957 e il 1963. Il 68 era ancora lontano ma le generazioni dei giovani ribelli già ne contestavano le scelte accusandolo di censurare le intuizioni più radicali. Lo racconta spesso Jean-Marie Straub di quei tentativi e l' inevitabile conclusione è: «C'era Rohmer...».
Cosa l' ha attratta nel personaggio del «Triple agent»?
Forse l'aspetto comico e il fatto che ci fosse un che di assolutamente inverosimile in tutta la vicenda nonostante sia vera. Inoltre mi sono sempre piaciuti i personaggi doppi e qui ne abbiamo addirittura uno triplo. Mi interessava la relazione tra l'agente e la moglie: la storia di una coppia che vive il proprio legame in un reciproco sentimento di sospetto. È un tema che mi affascina, forse è per questo che amo il cinema di Hitchcock Anche se quando ho scritto il libro insieme a Chabrol, ho capito che era lui a avere molte più affinità con Hitchcock di me. Però rivedo spesso i film di Hitchcock e ne resto continuamente ammirato. Ogni volta scopro cose che non avevo notato prima e che mi sorprendono. Non parlerei però di un riferimento o di una ispirazione diretta al suo cinema. Ero consapevole della mia attrazione verso il sospetto ancora prima di scoprire i film di Hitchcock. Direi piuttosto che sia io che Hitchcock che Bresson siamo debitori a Do stojevski. Infatti per il personaggio di Fedor ho pensato a Dimitri dei Fratelli Karamazov, al suo modo di dire la verità o di mentire che somiglia molto a come lo fa lui. ...
Lo definirebbe un film storico?
La fine del film non dà risposte. Come del resto i misteri storici che restano spesso tali. Da un punto di vista narrativo è un bene. Di solito si resta delusi dalla soluzione di un mistero, c'è sempre qualcosa di convenzionale. Il mistero è per me più forte se resta in altri miei film «storici», come La Marquise d' O. (76) e Perceval le Gallois (78) avevo adottato soluzioni diverse. Nel primo caso il decor naturale, nel secondo lo studio. Nessuna di queste era adatta a L'Anglais et le Duc, entrambe non mi permettevano di mostrare una Parigi autentica. Così ho pensato di «inserire » i personaggi dentro a tele realizzate su mia indicazione da Jean-Baptiste Morot e fedeli alla topografia del tempo. È un procedimento antico, Méliès è stato tra i primi a sperimentarlo. Inoltre dieci anni fa, quando ho iniziato a lavorare a quel film, la tecnica digitale non era ancora molto avnzata, il passaggio dal video al 35 millimetri non aveva una buona qualità.Qui avevo pensato alle immagini d'archivio come a una possibile scenografia ...
C'è qualcosa di autobiografico nel suo cinema?
Ho fatto molti film che raccontavano la giovinezza ma non era mai la mia. È qualcosa di impensabile per me. Anche inel caso del Triple agent ho lavorato su un periodo storico che ho conosciuto in prima persona come su altri che erano assolutamente lontani dalla mia esperienza. Il 1936 è un anno complicato. Però non volevo che il film fosse sul 1936, in questo senso non è un film storico ...Mi interessava puntare su una storia e su alcuni personaggi che nel loro rapporto con quanto accade intorno ne sintetizzano le contraddizioni e l' ambiguità.

Rinaldo Censi
IL CRITICO
Lo spazio pieno della scrittura che diventa arte
Prima di iniziare a realizzare film, Eric Rohmer era un professore di lettere in un liceo parigino. Si occupa di cinema, ne scrive fin dalla seconda metà degli anni '40. Dal '48 per la precisione. Collaborerà con varie riviste: Les Temps Modernes, La Gazette du cinéma (fondata dallo stesso Rohmer), La Revue du cinéma, e naturalmente i Cahiers du cinéma. Nel giugno del 1948 esce sull'ultimo numero de La Revue du cinéma, diretta da Jean George Auriol, un suo testo intitolato «Il cinema arte dello spazio». È un testo di grande respiro, accompagnato da una scrittura già matura, piana, classica. Porta la firma di Maurice Schérer: si sa, all'epoca scrivere di cinema era un'attività davvero malvista. Figurarsi per un professore di liceo. Attraverso l'attenta analisi dello spazio operata da diversi cineasti, Keaton, Ejzenstejn, Murnau, Welles, Griffith, Rossellini, il cinema espressionista, Rohmer/Schérer già riflette sulle qualità, sugli elementi e i procedimenti in grado di esplicitare e segnare un'evoluzione del cinema: «I procedimenti di cui farà uso il regista moderno nell'ambito dell'espressione spaziale saranno dunque molto meno appariscenti che vent'anni fa.
È normale che l'evoluzione del cinema, come accade per tutte le altre arti, vada nella direzione di un'economia dei mezzi espressivi. Questa semplificazione può sfociare in un maggior realismo: il merito di Rossellini in Paisà è quello di aver puntato il meno possibile su effetti di montaggio e di aver evitato un eccessivo frazionamento delle inquadrature». È possibile leggere in questo passaggio, non solo un rapporto di filiazione (risuonano qui alcune posizioni sull'evoluzione del linguaggio cinematografico che Rohmer fa sue rileggendo André Bazin), ma soprattutto una sorta di petizione di principio: che cosa sono i film di Eric Rohmer se non l'esemplificazione, la messa in atto di questa idea di cinema? L'esemplificazione appunto del cinema come arte dello spazio.
Non è un caso che tra i cineasti più amati ci sia Alfred Hitchcock (un vero «autore», così viene definito, senza sprezzo del ridicolo, in tempi in cui gli autori erano Dreyer, Chaplin... quando il termine era osteggiato, se avvicinato al cinema hollywoodiano), cavallo di battaglia dei giovani turchi e dei Cahiers du cinéma, su cui Rohmer ha spesso scritto, firmando con Claude Chabrol nel 1957 la prima «scandalosa» monografia a lui dedicata. Hitchcock e i pezzi di torta, certo, ma anche lezioni di mise-en-scène, e l'idea che Hitchcock sia dopotutto un inventore di forme. Avevano ragione loro.
Arte dello spazio: la splendida tesi di dottorato dedicata all'analisi di un altro cineasta amato, Murnau e il suo Faust: L'organizzazione dello spazio nel 'Faust' di Murnau, appunto. Libro mirabile per un film mirabile, dove Rohmer si destreggia nell'analisi dello spazio pittorico, architettonico, e infine filmico. Scenografie, illuminazione, movimenti di macchina: ogni aspetto viene interrogato, declinato con autorevolezza.
Un suo testo intitolato Il gusto della bellezza, darà il titolo ad una raccolta di suoi scritti, pubblicata in Italia e ormai introvabile. Un libro che fa davvero il punto sul Rohmer critico, pur mancando di un testo cruciale come La celluloide e il marmo, saggio controverso che lo stesso Rohmer aveva rifiutato di ripubblicare (le note da aggiungere avrebbero superato la lunghezza del testo). Vi si trovano scritti sugli amati Renoir, Rossellini, Hawks, Hitchcock, ma anche su Frank Tashlin, Nicholas Ray e Isidore Isou (un classicista come Rohmer alle prese con un frenetico lettrista). Politica degli autori, Hollywood, e un tocco di avanguardia. Ogni testo di Rohmer lasciava il segno.

BIOGRAFIA
Le quattro stagioni di uno schermo rivoluzionario
Una vita da cinéphile, divisa fra la saggistica nei «Cahiers» e la produzione filmica
Eric Rohmer (nato a Tulle nel 1920, vero nome Jean-Marie Maurice Scherer) parlando di sé (su Libération) racconta che il primo film visto da bimbo è stato Ben Hur. Negli anni 40, subito dopo la guerra, frequenta a Parigi la Cinémathèque dove scopre i film di Griffith, Lang, Murnau, Chaplin, Eisenstein, Buster Keaton... Nel 1946 inizia a collaborare con la Revue du cinéma, frequenta i cineclub, conduce i dibattiti nelle sale di tendenza del Quartier Latin e lì incontra i suoi futuri conpagni di strada, Chabrol, Godard, Rivette, Truffaut. Tra il '47 e il '51, conosce anche André Bazin e Alexander Astruc. Con loro partecipa alla creazione del cineclub Objectif 49 e dei Cahiers du cinéma. Con l'aiuto di alcuni amici che gli prestano la macchina da presa e un po' di pellicola in 16 millimetri gira due corti, Berenice da Edgar Poe e Sonata a Kreutzer da Tolstoj. Nel '57 diviene caporedattore dei Cahiers che lascerà nel 1963, sotto la spinta modernista della direzione Rivette. Il suo primo lungometraggio, Le Signe du lion ('59), esce tre anni dopo, senza molti riscontri. Nel frattempo, Rohmer aveva iniziato quella che sarà la serie dei «Sei racconti morali» con la Boulangère de Monceau, dove il personaggio principale è Barbet Schroeder, con cui poi fonderà la casa di produzione Les Films de Losange. Dopo le riprese ancora amatoriali del secondo «Racconto», La Carrière de Suzanne ('63), realizza quello che sarà il quarto, in 35 mm, con un allora giovane ma già bravissimo direttore della fotografia, Nestor Almendros, che ottiene un certo successo. Riprende in mano il precedente progetto, La mia notte con Maud, per cui non aveva avuto i finanziamenti. Nel '70 la Warner-Columbia finanzia Le genou de Claire e L'Amour l'après-midi ('72). Nel '75 gira La Marchesa Von O. in Germania e in tedesco, e nel '78 Perceval, le Gallois. Nell'80 torna al cinema amatoriale con La Femme de l'aviateur, primo di una nuova serie, Commedie e Proverbi che comprende: Le Beau Mariage ('82), Pauline à la plage ('83), Les Nuits de la pleine de lune ('84), Le Rayon vert ('86, Leone d'oro a Venezia), L'ami de mon ami ('87). In seguito gira: Quatre aventures de Reinette et Mirabelle ('85), L'Arbre, le Maire et la Médiathèque ('92), Le Rendez-vous de Paris ('94). Tra l'89 e il 97 realizza anche un'altra serie dei Racconti delle quattro stagioni. Le difficoltà a montare la produzione ritornano con L'Anglaise et le Duc (2000) e Triple Agent (2003). L'ultimo film è Les Amours d'Astrée et Celadon, presentato alla Mostra di Venezia nel 2007.


J.L. TRINTIGNANT
«L'ho amato molto, era formidabile e austero»
«Ho veramente amato Eric Rohmer, era molto serio, un uomo austero e formidabile, un grande artista, meraviglioso». Così Jean-Louis Trintignant ha ricordato a Radio Europe 1 il regista francese Eric Rohmer, scomparso ieri a Parigi. L'attrice Marie Rivière che ha interpretato Delphine nel «Raggio verde» (1986, Leone d'oro a Venezia) e ha girato con il regista francese «Racconto d'inverno» (1991), «Racconto d'autunno» (1998) e «La nobildonna e il duca» (2001) ha definito Rohmer «un grande cineasta con un grande cuore, che ha saputo dare chance a tutti, dai tecnici agli attori sconosciuti». Ha ricordato come sia Fabrice Lucchini che lei stessa e Arielle Dombasle erano dei perfetti sconosciuti quando sono stati scelti per i suoi film. «L'abbiamo amato come una persona molto vicina, un parente. È stato il nostro creatore».

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