Per Uliano Lucas la
visita alla mostra “L'insostenibile leggerezza del
quotidiano”, che al Museo Lechi di
Montichiari ha chiuso ieri, è sta l'occasione per raccontarci un itinerario
artistico unico nel nostro paese.
Per
il grande fotoreporter è essenziale il suo ruolo sociale: “Ho
sempre lavorato per i giornali in cui mi rispecchiavo politicamente.
Ciò mi ha permesso di raccontare in libertà, cercando di capire
quel che mi sta intorno, ragionando sull'uso e sull'abuso
dell'immagine”.
Parla
degli inizi a Milano “in via Brera e dintorni, fra l'Accademia e il
Bar Jamaica, fotografare significava far politica, cogliendo i
fermenti culturali del tempo, le periferie, gli operai, mondi che
nessuno fotografava”.
E
poi il '68, con “le manifestazioni, gli studenti, i volti, le vite,
le case, i bar, gli intellettuali, il mondo bohemien: vivevo alla
giornata, la macchina fotografica anarchica a quattro rulli era ciò
che amavo di più, raccontavo quel grande movimento libertario,
attento anche ad artisti come Piero Manzoni o alle canzoni dei Gufi,
Jannacci, Cochi e Renato. La contestazione la seguii tutta per
l'Espresso', una storia incredibile perché i ragazzi in rivolta
volevano mutare rapporti ormai vecchi. Ne seguì una dura
represssione, ma ormai il mondo era esploso”.
La
sua “Piazzale Accursio, Milano” è un'icona della storia
italiana: “finita nei libri di scuola, sui muri, diventata tessera
di associazioni, ci dice che il mondo lo cambiano i giovani, qui in
movimento, con l'eskimo e le bandiere”.
Degli
anni '70 rievoca i tanti lavori militanti. Ancora il mondo operaio:
“in Italia erano 10 milioni, nel silenzio assoluto degli
intellettuali: io ho tentato di raccontarli entrando in fabbrica,
nelle case popolari, nei comizi”. Contro il servizio militare:
“istituzione armata dove i diritti non esistevano, i soldati erano
alla mercé di caporali e buttavan via i mesi nei signorsì e
signornò”. Sull'emigrazione e il pendolarismo: “studiavo i tempi
della città, le radici dei nuovi arrivati, costruendo lunghi
racconti: 'Immigrato sardo davanti al grattacielo Pirelli' è oggi
la foto-simbolo delle contraddizioni del miracolo economico,
anch'essa finita nei libri di scuola, ritrae uno dei due milioni e
mezzo di emigranti che dal sud è giunto al nord producendo
ricchezza”.
“Ho
sempre dialogato con chi stavo fotografando - precisa - perchè solo
in questo modo riesci ad avere l'insieme di conoscenze che ti
permettono di metterti alla pari del soggetto. Quell'uomo veniva da
Olbia e voleva andare a Rho senza sapere come, quindi lo aiutai”.
Studiando “trasformazioni urbane a gran velocità, ribaltando i
tempi del lavoro, del trasporto della vita in casa e nel quartiere”,
ma anche “gli ex ospedali psichiatrici dove non sapevi mai chi era
il matto, il mondo dell'adozione, le prime forme di inquinamento, la
fine delle fabbriche”.
Lucas
è anche il primo a fotografare gli immigrati stranieri, già allora:
“Vedendo i loro volti non c'è nessuna differenza con quelli dal
Sud degli anni '60. Li seguivo salire sui treni, mangiavo e vivevo
con loro. A quel tempo lavoravo per 'Jeune Afrique', una rivista
parigina che aveva fotografi di 22 nazionalità, immaginatevi”.
La
sua fama si internazionalizza con i fotoreportage dai principali
scenari bellici e nelle lotte per la democrazia e la libertà, dal
Portogallo del dittatore Salazar alle guerre di liberazione in
Eritrea, Guinea-Bissau, Angola e Giordania.
“Dell'Africa
- dice - oggi abbiamo solo l'idea della disperazione, di un
continente senza avvenire, ma là ci sono cinema, poeti, università,
cità, fabbriche, non solo guerre. Non dobbiamo raccontare che ci
sono le zebre, ma un mondo oggi invisibile”.
Grande
scalpore suscitarono i suoi reportage dalle guerre balcaniche:
“Sarajevo subì un assedio miserabile per più di mille giorni,
senza che nessuno lo impedisse: tutto funzionava - scuole, negozi,
bar - ma sui media volevano il sangue”.
“Oggi
- ammette - il fotogiornalismo non esiste più perché è cambiato il
mondo ed è cambiata la carta stampata. Se non ci sono più fotografi
che le raccontano, le storie scompaiono. Abbiamo bisogno di gente che
faccia questo lavoro, fuori dai grandi centri di potere a cui ciò
non interessa: ad esempio, l'Africa è un mondo altro che viene
ignorato, non può ancora farsi raccontare da noi: là non ci sono
agenzie, ma lo sguardo del fotografo americano è diverso da quello
di un africano. E poi c'è il grande dramma degli archivi: molti
quotidiani non hanno più un archivio, si va in agenzia, che sono le
memorie storiche del pianeta. L'80% di quel che si pubblica in Italia
è comprato da quattro agenzie straniere che producono foto per i 200
quotidiani più importanti del mondo e ciò forma l'opinione
pubblica”.
“In
questi anni - conclude - sto
finendo un lavoro su Milano, in previsione di una
mostra nel 2020.
Alla sera salgo sui metro, sui tram, sui treni che raccolgono le
persone che escono dal lavoro e vanno nelle loro case in periferia.
Realizzo
reportage studiando le difficoltà della loro vita, dei tempi, dello
sfruttamento, della perdita del tempo libero. Il mio compito è
pedinare la gente per raccontarla e trasmetterne la memoria”.
Flavio Marcolini
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