lunedì 6 gennaio 2020

Incontrare... Uliano Lucas

Per Uliano Lucas la visita alla mostra “L'insostenibile leggerezza del quotidiano”, che al Museo Lechi di Montichiari ha chiuso ieri, è sta l'occasione per raccontarci un itinerario artistico unico nel nostro paese.
Per il grande fotoreporter è essenziale il suo ruolo sociale: “Ho sempre lavorato per i giornali in cui mi rispecchiavo politicamente. Ciò mi ha permesso di raccontare in libertà, cercando di capire quel che mi sta intorno, ragionando sull'uso e sull'abuso dell'immagine”.
Parla degli inizi a Milano “in via Brera e dintorni, fra l'Accademia e il Bar Jamaica, fotografare significava far politica, cogliendo i fermenti culturali del tempo, le periferie, gli operai, mondi che nessuno fotografava”.
E poi il '68, con “le manifestazioni, gli studenti, i volti, le vite, le case, i bar, gli intellettuali, il mondo bohemien: vivevo alla giornata, la macchina fotografica anarchica a quattro rulli era ciò che amavo di più, raccontavo quel grande movimento libertario, attento anche ad artisti come Piero Manzoni o alle canzoni dei Gufi, Jannacci, Cochi e Renato. La contestazione la seguii tutta per l'Espresso', una storia incredibile perché i ragazzi in rivolta volevano mutare rapporti ormai vecchi. Ne seguì una dura represssione, ma ormai il mondo era esploso”.
La sua “Piazzale Accursio, Milano” è un'icona della storia italiana: “finita nei libri di scuola, sui muri, diventata tessera di associazioni, ci dice che il mondo lo cambiano i giovani, qui in movimento, con l'eskimo e le bandiere”.
Degli anni '70 rievoca i tanti lavori militanti. Ancora il mondo operaio: “in Italia erano 10 milioni, nel silenzio assoluto degli intellettuali: io ho tentato di raccontarli entrando in fabbrica, nelle case popolari, nei comizi”. Contro il servizio militare: “istituzione armata dove i diritti non esistevano, i soldati erano alla mercé di caporali e buttavan via i mesi nei signorsì e signornò”. Sull'emigrazione e il pendolarismo: “studiavo i tempi della città, le radici dei nuovi arrivati, costruendo lunghi racconti: 'Immigrato sardo davanti al grattacielo Pirelli' è oggi la foto-simbolo delle contraddizioni del miracolo economico, anch'essa finita nei libri di scuola, ritrae uno dei due milioni e mezzo di emigranti che dal sud è giunto al nord producendo ricchezza”.
“Ho sempre dialogato con chi stavo fotografando - precisa - perchè solo in questo modo riesci ad avere l'insieme di conoscenze che ti permettono di metterti alla pari del soggetto. Quell'uomo veniva da Olbia e voleva andare a Rho senza sapere come, quindi lo aiutai”. Studiando “trasformazioni urbane a gran velocità, ribaltando i tempi del lavoro, del trasporto della vita in casa e nel quartiere”, ma anche “gli ex ospedali psichiatrici dove non sapevi mai chi era il matto, il mondo dell'adozione, le prime forme di inquinamento, la fine delle fabbriche”.
Lucas è anche il primo a fotografare gli immigrati stranieri, già allora: “Vedendo i loro volti non c'è nessuna differenza con quelli dal Sud degli anni '60. Li seguivo salire sui treni, mangiavo e vivevo con loro. A quel tempo lavoravo per 'Jeune Afrique', una rivista parigina che aveva fotografi di 22 nazionalità, immaginatevi”.
La sua fama si internazionalizza con i fotoreportage dai principali scenari bellici e nelle lotte per la democrazia e la libertà, dal Portogallo del dittatore Salazar alle guerre di liberazione in Eritrea, Guinea-Bissau, Angola e Giordania.
“Dell'Africa - dice - oggi abbiamo solo l'idea della disperazione, di un continente senza avvenire, ma là ci sono cinema, poeti, università, cità, fabbriche, non solo guerre. Non dobbiamo raccontare che ci sono le zebre, ma un mondo oggi invisibile”.
Grande scalpore suscitarono i suoi reportage dalle guerre balcaniche: “Sarajevo subì un assedio miserabile per più di mille giorni, senza che nessuno lo impedisse: tutto funzionava - scuole, negozi, bar - ma sui media volevano il sangue”.
Oggi - ammette - il fotogiornalismo non esiste più perché è cambiato il mondo ed è cambiata la carta stampata. Se non ci sono più fotografi che le raccontano, le storie scompaiono. Abbiamo bisogno di gente che faccia questo lavoro, fuori dai grandi centri di potere a cui ciò non interessa: ad esempio, l'Africa è un mondo altro che viene ignorato, non può ancora farsi raccontare da noi: là non ci sono agenzie, ma lo sguardo del fotografo americano è diverso da quello di un africano. E poi c'è il grande dramma degli archivi: molti quotidiani non hanno più un archivio, si va in agenzia, che sono le memorie storiche del pianeta. L'80% di quel che si pubblica in Italia è comprato da quattro agenzie straniere che producono foto per i 200 quotidiani più importanti del mondo e ciò forma l'opinione pubblica”.
In questi anni - conclude - sto finendo un lavoro su Milano, in previsione di una mostra nel 2020. Alla sera salgo sui metro, sui tram, sui treni che raccolgono le persone che escono dal lavoro e vanno nelle loro case in periferia. Realizzo reportage studiando le difficoltà della loro vita, dei tempi, dello sfruttamento, della perdita del tempo libero. Il mio compito è pedinare la gente per raccontarla e trasmetterne la memoria”. 
Flavio Marcolini

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