lunedì 3 dicembre 2012

Mai più morti invano!

Ringraziando l'autore, pubblichiamo il testo integrale dell’intervento tenuto dallo storico Mauro Pellegrini in apertura del Consiglio Comunale del 28 novembre, dedicato alla revisione degli elenchi dei caduti calcinatesi nella prima guerra mondiale. 


Il motivo per il quale ci ritroviamo qui oggi è la commemorazione dei caduti calcinatesi nella grande guerra, specialmente coloro che vennero  volutamente omessi dagli elenchi ufficiali o dimenticati.
Le giunte municipali, le associazioni patriottiche e combattentistiche produssero per tutta la durata della guerra e negli anni successivi gli inventari “ufficiali” dei caduti; coi dati raccolti furono dapprima iscritte le lapidi commemorative, affisse sulla facciata del municipio e nei due cimiteri del capoluogo e di Calcinatello. Da una di queste elaborazioni statistiche si estrapolò l'elenco degli 83 “calcinatesi” perpetuati nel monumento ai caduti eretto sulla facciata della torre civica e, successivamente, commemorati nel parco delle rimembranze realizzato nel prato posto dietro ad essa. Si stabilì, come criterio selettivo, di considerare “cittadini calcinatesi” soltanto coloro che fossero risultati residenti  nel comune alla data di morte o della dispersione, escludendo di fatto tutti i nativi che, per motivi legati all'emigrazione interna, avevano fissato altrove la loro residenza. Ciò determinò che molti altri caduti, calcinatesi di nascita, non fossero compresi negli elenchi ufficiali e conseguentemente non venissero ricordati nel monumento, in quanto «presumibilmente sarebbe stata cura dei comuni di ultima residenza rendere loro testimonianza». Tale ipotesi si rivelò eccessivamente ottimistica e, molto probabilmente, qualcuno dei caduti emigrati rimase dimenticato, dato che ancora alla metà degli anni '20, quando ormai quasi tutti i comuni della provincia avevano realizzato i propri monumenti, l'Archivio di Stato di Brescia inviava ripetuti solleciti al comune di Calcinato per ottenere notizie su alcuni di loro. Non sempre fu possibile ottenere informazioni rapide e corrette sui caduti emigrati dal luogo di nascita: la compilazione manuale dei documenti cartacei, con la conseguente crescita esponenziale di errori di ortografia generò confusioni e fraintendimenti sulle loro generalità, causando numerosi scambi di persona accentuati dalla difficoltà ad ottenere dati precisi dai familiari, molti dei quali ancora analfabeti, e collegamenti rapidi soprattutto con gli enti  militari di appartenenza. Anche la frequente confusione nei documenti ufficiali, primo fra tutti l'Albo d'Oro redatto dal Ministero della Guerra per celebrare i caduti di ogni provincia italiana, ed il non raro scambio del toponimo “Calcinato” con quello del comune bergamasco di “Calcinate” (e viceversa!) contribuì ad accentuare lungaggini burocratiche e dispersione di documenti e richieste. Sulla scorta di queste considerazioni, è stato possibile attraverso l'incrocio di più fonti archivistiche analizzate durante lo sviluppo della ricerca “Calcinato, Zona di Guerra”, giungere ad una quantificazione corretta del numero dei caduti “calcinatesi” dando risalto anche a quelli dimenticati ed omessi, che risultano essere 31. Tra i nativi calcinatesi “dimenticati”, vi è per esempio, il bedizzolese d'adozione Pietro Giuseppe Garatti, che fin dall'estate del 1914 combatté sul fronte francese come volontario nel 1° reggimento di fanteria della Legione Straniera, e morì 1 aprile 1916. Anche il carrettiere Tommaso Tognini, risulta tra gli “omessi”, in quanto condannato all'ergastolo per diserzione nel dicembre 1917, e morto il 25 ottobre, nella casa penale dell'isola dell'Asinara. Cesare Sigurtà, nativo di Ciliverghe ma effettivamente residente a Calcinato all'atto della morte avvenuta il 12 marzo 1918 per deperimento organico nel campo di prigionia di Milowiz in Boemia, era invece caduto prigioniero il 25 ottobre 1917 a Canale d'Isonzo durante lo sfondamento di Caporetto; molto probabilmente dovette condividere insieme ad altre centinaia di migliaia di soldati italiani il pregiudizio e la stigmatizzazione riservata dai politici e dall'opinione pubblica benpensante a chi era caduto prigioniero durante quel disastro. Le direttive ministeriali emanate nel dopoguerra ai sindaci li invitavano chiaramente nel redigere gli elenchi dei caduti ad ispirarsi al criterio di una «stretta e necessaria dipendenza delle circostanze della morte dalle ragioni della guerra e della dignità del militare d'essere ricordato ai posteri come nobile vittima di una grande causa. E' superfluo dire che di un disertore morto in prigionia ovvero di un autolesionista deceduto in seguito al suo delitto, sarebbe assurdo parlare». Orfano dei due genitori e praticamente ignorato dai familiari già in una situazione precedente quando ancora era in vita, Cesare Sigurtà non trovò nessuno disponibile a patrocinarne la sua iscrizione nel monumento, fatto che avrebbe significato un'implicita “riabilitazione” da un'accusa per la quale non poté mai difendersi.
A quasi un secolo di distanza dalla Grande Guerra è soprattutto sulla comprensione dei significati profondi di quell'esperienza che dobbiamo ancora confrontarci, approfondirne le implicazioni e gli esiti, politici, economici, sociali ed antropologici, per restituire di quella tragedia sociale, prima che politica, un'immagine più coerente con l'evoluzione degli anni che la seguirono. Si può ben definire la dinamica interna di quel conflitto come guerra di stato imposta al popolo; perché le classi dirigenti liberali, servendosi dell'apparato repressivo dello stato costrinsero i “sudditi”, ed in particolare le classi subalterne recalcitranti, ad affrontare la morte per una causa nella quale non si riconoscevano. Oggi, attraverso una militanza intellettuale indipendente da sovrastrutture politico-ideologiche, da tradizionalismi, condizionamenti religiosi, costruzioni moraleggianti dei concetti di onore e dovere, possiamo liberamente interrogarci sul perché tutto ciò sia potuto accadere. Quando nell'aprile del 1915 il presidente del consiglio Salandra, preoccupato della scarsa condivisione manifestata dai ceti popolari per gli ideali patriottici, chiese ai prefetti di relazionarlo sull'orientamento dell'opinione pubblica, in vista dell'imminente entrata in guerra, il prefetto di Piacenza gli rispose che «L'agricoltore, il contadino poco evoluto che non afferra il senso dei grandi ideali della patria, si arresta con la sua mentalità ai danni diretti da lui più intensamente e immediatamente sentiti dalla partenza dei propri figli per la guerra, partenza che, oltre al dolore angoscioso, produce un grave dissesto per la coltivazione del campo che rappresenta la vita di queste anime semplici». «Si sa – diceva peraltro il prefetto di Chieti – che nessuno pensa di invadere il territorio della patria e che nessuno ha attentato alla sua dignità: quindi non si vede alcuna ragione di entusiasmarsi all'idea di una guerra». Gli replicò il prefetto di Sondrio che «la classe dei contadini segue passivamente l'indirizzo delle classi dirigenti ed è a ritenersi che finirebbe con acconciarsi, con rassegnazione, a qualsiasi eventualità». Il segno negativo che era in questa “rassegnazione” di popolo, costantemente esposta all'usura di eventi non calcolabili, non fu preso in minima considerazione, e invece la letteratura di guerra vi ricamò sopra simboli e miti abbaglianti, idealizzando la rassegnazione come condizione naturale-storica dei gruppi sociali subalterni e, conseguentemente delle truppe composte in maggioranza da contadini. Si fece così la demagogia dell'”esercito contadino”, si costituì l'immagine compiaciuta del “contadino ingenuo e buono, infinitamente rassegnato, paziente, disposto all'obbedienza, remissivo, religioso e conservatore, con quella personalità infantile ed ottusa, che lo rendeva naturalmente sottomesso ed ubbidiente. Il frate francescano Agostino Gemelli, pioniere degli studi psicologici in Italia fu l'ideologo dell'apatia come naturale forma di consenso delle classi subalterne per le conclusioni razzistiche alle quali giunse coi suoi studi, che offrirono il conforto della scienza ai metodi autoritari e repressivi del comando supremo del regio esercito che li aveva commissionati. Ma in Italia i ceti subalterni avevano iniziato già da tempo  a ribellarsi al ruolo di “classi funzionali” che era stato loro riservato da un sistema politico e sociale strutturato su concatenazioni di autorità-coercizione-subordinazione-obbedienza nel quale anche la chiesa svolgeva un ruolo fondamentale per la conservazione del potere delle classi elevate, essendo forza politica ancora squisitamente conservatrice e reazionaria. La riforma elettorale del 1912 con l'allargamento del suffragio maschile e l'affacciarsi alla ribalta politica dei partiti di massa, aveva dimostrato che la società civile si era messa in movimento assumendo coscienza di sé, e che le masse rivendicavano i propri diritti senza richiederne il placet alle classi dirigenti, dimostrando che, se necessario, avrebbero potuto anche ricorrere alla forza per ottenerli. La decisione dell'entrata in guerra dell'aprile 1915 dimostrò invece che la volontà popolare poteva ancora essere piegata con le maniere forti da chi poteva contare sul controllo dell'apparato repressivo dello stato. I ceti possidenti e conservatori furono determinati così a risolvere, anche in politica interna ed una volta per tutte, i conti con i propri antagonisti di classe, ed a conservare le posizioni di privilegio attraverso le quali poter mantenere la base della piramide sociale in stato di soggezione: quasi che il fascismo, inteso come svolta reazionaria organizzata fosse già nell'aria ben prima dell'ottobre 1922.
«Un popolo lo si manda e lo si tiene alla guerra con la forza o con i miti. Meglio con tutti e due. La tradizione militare della quale il Cadorna fu il massimo esponente puntò sulla coercizione; gli interventisti democratici allargarono la buona coscienza dei loro miti democratici, parlando di disciplina di persuasione; gli interventisti nazionalisti e i governi vollero la sintesi dei due elementi, forza e mito. ». E così, l’immagine di una guerra crogiolo di una sia pur tardiva identità collettiva, coincise da subito con il mito della Grande Guerra, gettando le premesse per un artefatto destino di future, “immancabili” grandezze, di esaltazione della gloria militare, di spontanea adesione ai valori guerreschi, capaci di accomunare, finalmente, classi dirigenti e classi popolari, possidenti e lavoratori: questa l’immagine vittoriosa della Nazione, che il fascismo avrebbe  enfatizzato ed amplificato (espellendone, naturalmente, in quanto anti-italiani, gli oppositori); le radici dei cosiddetti “destini imperiali” cui Mussolini avrebbe poi guidato tragicamente l’Italia, conducendo al disastro un paese istupidito dalla retorica nazional-fascista, affondano nella “prova suprema” della Grande Guerra, nella conquistata (presunta) compattezza del corpo sociale. Con il regime si intensificò una martellante strategia tesa a trasformare la tragedia sociale della Grande Guerra in un’epopea di condivisi sacrifici, di geniali strategie, di unanimi eroismi. Attraverso l'educazione scolastica, si costruì la rappresentazione di un esteso monumento nazionale in cui l'esperienza bellica di ogni combattente caduto sembrò diventare paradigmatica ed esemplare nel  formare una teoria infinita di eroi, al fine di costituire una sorta di unica monografia patriottica [rispettando] l'esigenza di non stravolgere l'immagine stereotipata di un popolo e di una società tesi in un corale slancio patriottico. Si ritrovano chiaramente tutti i riferimenti che riconducono l'esperienza della Grande Guerra nella tradizione risorgimentale ed evidenziano la necessità di renderla un evento edificante da percepire e da rielaborare intorno all'asse virtuoso Dio-Patria-Famiglia, dove, in una concezione spiccatamente idealista la storia è mossa dai grandi aneliti, espressi soprattutto nelle testimonianze patriottiche degli ufficiali, rappresentanti di élites che si esauriscono in sé stesse e non si pongono il problema di essere organicamente legate alle grandi masse nazionali.
Perciò, anche per dovere di chiarezza oggi, «proprio muovendo con vigilanza ai valori alternativi che gli studi più autorevoli sulla prima guerra mondiale hanno affacciato, possiamo porci liberamente, da cittadini e non da sudditi, tutta una serie di fondamentali interrogativi: uso e scopo politico, guida economica e militare, costo materiale e costo umano, dinamiche di classe, condivisione e dissenso. Le risposte risultano, per implicazione, fortemente responsabilizzanti: 1) la guerra non fu popolare-nazionale; 2) la guerra, per la classe che la diresse, fu un modo diverso di continuare una politica di conservazione; 3) la guerra non  ebbe fini “risorgimentali”; 4) la guerra non ebbe il consenso delle masse popolari. 5) I sacrifici sopportati durante la guerra non furono uguali per tutti e ciò approfondì ulteriormente le divaricazioni di classe esistenti. 6) la guerra non fu “rigenerazione morale” e “unificazione civile” del paese, ma accelerò il processo distruttivo e di scompaginamento delle sue strutture politiche e sociali».  Se, una tesi largamente diffusa e non priva di fondamento sostiene che l'unità d'Italia è stata comunque cementata dalla prova della prima guerra mondiale, gli indici di renitenze e diserzioni ci ricordano anche che coloro che non vollero scendere nelle trincee, che si rifiutarono di identificarsi nello Stato, non erano  una sparuta minoranza: gli oltre 470.000 renitenti refrattari, i circa 4.000 disertori con passaggio al nemico, i più di 1.000 fucilati o vittime di esecuzioni sommarie, i 380.000 militari condannati per reati penali di cui 20.000 a pene maggiori di 20 anni di carcere,  testimoniano nel 1915-1918 l'area del dissenso nella quale si riconosce l'emersione di un fenomeno ben più ampio di atteggiamenti reattivi che si manifestarono non solamente attraverso la passività e la rassegnazione, ma anche l'intenzione agita». Perché chi si credette in dovere, per i nostri “supremi interessi», che furono interessi prevalentemente di classe, di trascinarci sui sentieri di guerra, lo fece sempre in condizioni di colpevole, criminale incompetenza ed impreparazione tecnica-militare, aggiungendo sciagura a sciagura». E soprattutto perché non chiese a colui che la guerra dovette combatterla più che gli altri, il  contadino poco evoluto che non afferra il senso dei grandi ideali della patria, se si identificasse e sentisse partecipe degli “alti destini” d'Italia. Giacché Gemelli lo aveva definito “uomo essenzialmente fattivo e produttivo”, portato quindi ad accettare “ciò che viene detto da altri uomini destinati a pensare come egli è destinato a produrre», si preferì obbligarlo, o persuaderlo, se volete, col fucile puntato alla schiena ad uscire dalla trincea per andare all'assalto e versare il proprio sangue sul “campo dell'onore”.

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