mercoledì 17 giugno 2009

CON IL MANIFESTO RICORDIAMO IVAN DELLA MEA




Da il manifesto del 16.06.2009 pubblichiamo gli articoli in memoria di Ivan Della Mea. Stiamo pensando a una serata per ricordarlo insieme. Fateci avere opinioni, osservazioni, proposte suggerimenti e disponibilità. La difesa della memoria è difesa dalla barbarie.

COMMENTO di Ivan Della Mea Morte di un comunista

L'età non gliela do, impossibile. Se ne sta accucciato tra due bancarelle del mercato di Via Oglio. È sabato e sabato Via Oglio è mercato: frutta e verdura per lo più, un banco grande per il pesce: il pesce si fa sentire, grida da solo. Da un camioncino che diventa bottega arriva il sentore dei polli grigliati interi mezzi ali cosce petti, dei polli fritti interi mezzi ali cosce; coniglio fritto a pezzi; polpette e crocchette: un'aurea circonda l'ambaradam del fritturame, quasi lo santifica: c'è del mistico prima del mastico. Il tipo accucciato sta: accucciato. La fame ce l'ha addosso. Ha rimediato un'arancia mezza tra il marcio e il sano. Butta il marcio e grufola nel sano ci va dentro con tutta la bocca e morde e succhia e si sbrodola: possono essere i suoni della fame. Cazzo, penso, è la fame. Sono sempre stato un pirla tra il penoso e il pietoso. Compro un chilo di arance e glielo porto. Mi guarda serio. Mele mi dice. Fanculo. Il fruttivendolo mi schizza di brutto. Cambio? Nisba nient nada no. Compro un chilo di mele. Torno dal tipo e a muso duro: adesso ti tieni mele e arance, cazzi tuoi. E chi dice bah? Mi risponde allegro il tipo. Mi mancano una settantina di metri prima di raggiungere l'ingresso dell'arcicorvettocheincormistava, ora mi sta un po' meno frequentato com'è da una maggioranza di berluscazzi e leghisti. Quei metri accosto al mercato di solito li percorro dietro le bancarelle per evitare la ressa di massaie e pensionati in caccia del meglio al meno. Ci rinuncio. Dietro le bancarelle ce n'è un tot di barba, randa, una zingarella: stanno, non chiedono, non tendono le mani, soltanto la zingarella ha un bicchierone vuoto di cocacola. Se vuoi dare dai. Morta lì. Il Ricca è morto. Teneva casa davanti al Circolo. Tipo quieto e spesso sorridente, basso e tondo ma non troppo. Non fumava, mai visto fumare. Un calice per la compagnia. Grande giocatore di carte: scopa d'assi e tressette. Quando mancava uno per fare il quarto lo chiamavano dalla strada. Il Ricca si affacciava. Scendeva e il gioco iniziava. Nelle discussioni spesso incazzose del post partita lui ragionava con calma, mai alzava la voce, ma sapeva della regola del quarantotto per ricordare le carte sparigliate e parigliate e soprattutto ricordava perfettamente la sequenza delle diverse mani giocate: te hai giocato il re lui ha messo il fante io di mazzo ho calato un due, l'aletta ha spazzato con l'asso... andava oltre la memoria di parigli e sparigli ed era pressoché impossibile beccarlo in castagna ma quando accadeva, cosa rara, il Ricca si rivelava giocatore vero, capace di ammettere l'errore. Gli si poteva voler bene anche per questo. Il gioco delle carte è rivelatore della personalità dei giocatori. Il Ricca era una bella persona. Andò che due giorni fa lo chiamarono. Si affacciò. Disse vengo. Non arrivò. Morì sulle scale stroncato da un infarto fulminante. Non ci fu partita non per lui. Poi, l'inutile ambulanza, la barella, noi lì intorno. L'ho vista la faccia del Ricca, bianca dello stesso bianco del lenzuolo. Inutile e quasi blasfema la sirena: il Ricca ormai non aveva nessuna fretta, nessuna. Qualcuno, un socio, alzò il pugno. Forse il Ricca era stato o era comunista. Difficile dirlo. Non lo so. Mai l'ho sentito parlare di politica. Epperò quel pugno alzato nel saluto un significato deve avercelo. Ce l'ha: quando muore un comunista.



BALCONE di G. Cap.RICORDI«O cara moglie», tra affetti e scioperi

È soprattutto gratitudine che il ricordo personale di Ivan Della Mea può ispirare. Quella per le sue canzoni indimenticabili che hanno segnato il passo di diverse generazioni verso un cielo bianco di carta; quella per la passione politica che è riuscito a contagiare senza mai fare prediche o astrazioni; quella più forte di tutte, forse, per essere sempre stato, nelle sue parole, nelle musiche e negli scritti, un uomo intero, quasi fosse lui per molti di noi quel omm. Che a fianco alla politica e alla ragione ha sempre sostenuto le ragioni del cuore. Anche nel senso più privato. Tanto che le sue canzoni cominciarono a entrare come corpi «clandestini» (come De Andrè del resto) prima ancora del '68 nelle aule severe dei licei. E a venir cantate come un linguaggio altro e nuovo, che pure riusciva a esprimere qualcosa che pareva altrimenti inesprimibile. O cara moglie raccontava di scioperi e padroni e crumiri, ben prima dell'autunno caldo, ma attraverso la ricaduta dentro un universo familiare che poteva davvero essere familiare a chiunque. E dopo pochi anni, quando la lotta politica aveva dilagato nelle scuole e nelle piazze, Ivan Della Mea scrisse per Angela il più bello e caloroso e vissuto degli inni all'amore. Un uomo formidabile Della Mea, un cantautore che più cantava il valore della politica, più allargava il cuore verso la pienezza dell'esistenza. Suo fratello Luciano dava la forza del ragionamento dentro acque che si intorbidavano sempre più senza quasi ce ne accorgessimo; lui Ivan faceva di ogni canzone (e quante ne ha fatte divertenti) una smorfia allegra. Con voli improvvisi di delicatezza degni di un grande retore del passato. La Gelmini avrebbe ancora molto da imparare se riuscisse ad ascoltare fino in fondo la Ballata di Ciriaco Saldutto. Noi per fortuna lo terremo sempre nel cuore e nella memoria.

APERTURA di Cesare BermaniSINISTRA ITALIANA - Le provocazioni di un bastian contrarioPiccole e grandi storie. Dalla Milano anni 50 e 60 all'«Amendoleide»Con Ivan se ne va una fetta importante della vita di tanti compagni. Difficile, direi impossibile, comprimere in poche righe una personalità così complessa come la sua. Ivan è legato agli anni più belli della mia vita, gli anni 1962-1969 che segnarono lo svilupparsi della ricerca sul campo del canto sociale italiano e della realtà di base, il decollo del Nuovo Canzoniere Italiano, spettacoli come Bella ciao e Ci ragiono e canto, infine lo sfociare di tutto questo nella cultura del Sessantotto. Sia Ivan che io avevamo già alle spalle una milizia nella Federazione Giovanile Comunista, in quegli anni pervasa da un desiderio d'autonomia rispetto al Partito degli adulti. Credo però che sia stato l'incontro con Gianni Bosio a determinare su che binari si sarebbero incanalate le nostre vite. Gianni fu per entrambi un «padre». Grazie a lui io divenni, credo, uno «storico», e Ivan il cantante che meglio e più degli altri assimilò il progetto politico-culturale del gruppo, in particolare il rapporto tra grande e piccola storia, leit motiv dell'opera di Bosio.Ivan giunse nel gruppo con una drammatica testimonianza autobiografica, cantata con impegno di liberazione, che forse non ha mai completamente raggiunta tanto traumatica era stata la sua esperienza infantile e adolescenziale. La prima volta che comunicò la sua storia familiare riuscì a cantarla solo con la schiena voltata agli ascoltatori e con la faccia rivolta al muro. Poi di quella sua tragedia parlò sempre poco, se non in questi ultimi anni, ma riusciva a farlo solo scherzandoci su, come soltanto riuscivano a raccontare certi reduci dai campi di sterminio. Pochi giorni fa mi disse che finalmente era riuscito a scriverne estesamente in Se la vita ti dà uno schiaffo, pubblicato dalla Jaca Book. Non potei fare a meno di dirgli: «Ce l'hai fatta finalmente!». Quel lungo poemetto in musica che ce lo fece conoscere, pregno di un'intensità sofferente, lo intitolò poi La grande e la piccola violenza. Anticipava di un buon decennio il «personale-politico» e se da esso una morale se ne poteva trarre era che la grande violenza del fascismo aveva generato tante «piccole violenze» quotidiane, tra cui quella generata dal comportamento violento di suo padre nei confronti di sua madre.Del sodalizio di quei primi anni con Ivan ricordo in particolare uno spettacolo sperimentale che curammo assieme, Altri vent'anni, andato in scena il 18 marzo 1966, critico verso le politiche culturali della sinistra dalla Liberazione in poi. Notavamo allora come l'abbandono del concetto stesso di «cultura di classe» tendesse a sospingere le organizzazioni di sinistra «nella direzione della propagazione della cultura oggi più confacente alla società dei consumi e alla forza ideologica che, pur sotto svariate tendenze partitiche si avviava a esserne la coerente espressione politica, ossia la socialdemocrazia». E affermavamo come non ci sembrasse perciò «un aspetto negativo il progressivo svuotamento di tali organizzazioni, il loro abbandono da parte della classe; negativo è semmai che stentino a sorgerne di nuove e intimamente diverse».Tanto per ricordare che certi problemi dell'oggi hanno radici lontane. Quindi, la sinistra italiana, nella quale abbiamo sempre militato in questo o quel raggruppamento, c'è tuttavia sempre andata anche molto stretta. Da cui un nostro permanente essere critici nei suoi confronti e la fama - debbo dire più che meritata - di essere dei rompiballe e dei «provocatori». Molte canzoni e atteggiamenti di Ivan furono infatti espressione di voluta, anche se non sempre ponderata, provocazione politica verso prassi che non si riusciva più ad accettare. Da Nove maggio, che stigmatizza il fatto che Longo e Parri fossero stati nella celebrazione del Ventennale della Liberazione di due mesi prima a fianco di Andreotti, che Ivan cantò perché Cossutta gli aveva detto di non farlo in uno spettacolo abbinato proprio a un comizio di Luigi Longo, all'«Amendoleide», cantata in una sezione del Pci romano: «Amico mio di Roma/ stanotte ho fatto un sogno / tu eri al governo / leggevi l'Unità./ Ma poi mi son svegliato / e ho letto sul giornale / che alle ultime elezioni /a noi è andata male».Il suo modo d'essere lo portava a coniugare comunismo e anarchia, ateismo e cristianesimo, facendolo stare con naturalezza dalla parte di tutti gli sfruttati e di tutti gli emarginati, sino a rivendicare il «diritto alla follia». Ne L'estremista canta: «Rileggo Pasolini / il suo demofascismo/ è oggi la cultura / cresciuta a maggioranza/ e contro Cristo avanza / un clericofascismo / per il diverso e l'altro / c'è zero tolleranza / Rileggo anche Basaglia / e sono nei suoi matti / e sono nei migranti /e in tutti i mentecatti».Ivan è stato parte fondamentale della colonna sonora di una generazione di militanti perché le sue canzoni erano sempre il portato di una ricerca continua delle trasformazioni e di una poetica apparentemente semplice ma che solo lui ha saputo mettere in pratica: «La realtà si impara dove la realtà si fa e così la vita e così il mondo». Questo gli ha permesso di creare veri gioielli come El me gatt, Ballata per l'Ardizzone, Io so che un giorno, Mio Dio Teresa tu sei bella, Creare due, tre, molti Vietnam, la canzone che più incarna lo spirito del '68. E gli ha permesso di essere il cantore della Milano degli anni Cinquanta e del «lungo Sessantotto», quella che forse solo il suo amico Primo Moroni conosceva meglio di lui.Ma ecco, per esempio, come è nata una sua ballata. Nel 1973 lui e Clara vennero a trovarmi a Zaccheo, in Abruzzo, dove passavo le vacanze. L'8 agosto andammo a registrare alla festa di San Donato a Castiglione Messer Raimondo. Dalla processione e dai suoi canti Ivan trasse spunto per quella sua bellissima ballata che è Compagno ti conosco dove si interroga sul simbolismo religioso e laico.Dal 1996 Ivan ha anche fatto il presidente dell'Istituto Ernesto de Martino. Recentemente aveva chiesto di essere sostituito per motivi di salute. Avrebbe dovuto starsene un po' tranquillo ma non ce l'ha fatta a pensionarsi. E' sempre stato goloso di esperienze e ha sempre ingurgitato la vita tutta quanta. A settant'anni non si cambia. Così è morto sul campo, in piena attività.

TAGLIO MEDIO di Gabriele Polo«IL MEA»

Una vita da sovversivo narranteCantastorie, poeta, scrittore: intellettuale non «organico», bensì «rovesciato», per citare un libro del suo maestro, Giovanni Bosio. Questo è stato Luigi Della Mea, per tutti Ivan, per pochi «il Mea»: l'esatto contrario di ciò che è accademia o sapere separato da pratica e senso, l'opposto di impegno politico inteso come un mestiere qualsiasi. Insomma, un militante indipendente che intendeva il comunismo come ricerca e pratica della libertà. Quella di dire e fare cose scomode, soprattutto contro il potere, contro ogni potere. Anche quello che nasce a sinistra, anche quello «tuo personale», come cantava in Lettera a Michele, all'inizio degli anni '70, quando il «personale» non era ancora «politico», ma quando «il Mea» aveva già capito tutto su come le burocrazie potevano trasformare la militanza nell'alienazione dei sovversivi.Ecco, un sovversivo. Questo, nel profondo, era «il Mea», che ha raccontato le alienazioni e contro di esse si è battuto, non solo a parole, semmai usandole per costruire una narrazione comune. Quella indispensabile a capire la costrizione e a cercare di vivere la libertà. Sovversivo con gli altri e con se stesso, contro l'ordine costituito e contro quello «nuovo» dei suoi compagni di strada. Nelle feste dell'Unità e nei picchetti davanti alle fabbriche, nelle canzoni e nei suoi libri. Sovversivo persino con la propria esistenza (raccontata nel libro appena uscito, Se la vita ti dà uno schiaffo, Jaca Book), che ha sottoposto a continui stress, fino alla fine («Mica posso stare fermo, al diavolo i medici e le loro previsioni»).Sovversivo anche con noi, con questo giornale, cui ha dato canzoni e articoli, senza accettare nessun freno. Con quella voce strana su una chitarra rapezzata, con quella scrittura unica su una tastiera da cui a volte «spariva» la punteggiatura. Sarcastico e passionale, tenero e incazzato. Mandandoti al diavolo se non riceveva risposta nel giro di qualche minuto, perché «tutto si può sopportare, tranne il silenzio o l'indifferenza».«Mio il dovere di proporre, tuo il potere di disporre», scriveva a premessa di ciascun articolo che spediva. «Mea, scrivi troppo. E, poi, quale potere... qui siamo tutti schiavi del poco spazio». Sbottava: «Non fare il pirla con me, per quanto poco lo spazio c'è e c'è sempre chi sceglie come usarlo». Se vale per l'avversario - pensava - vale anche per noi. Questa la lezione, che finiva col metterti al muro nel cortocircuito della partecipazione personale: «Se non capite quanto vi voglio bene, sono solo problemi vostri».Ciao «Mea», cantastorie, poeta, scrittore... compagno. Termine da maneggiare con cura, un tempo inflazionato, oggi vilipeso. Con te si poteva usare senza paura di disperderlo o prendersi in giro.

TAGLIO BASSO "A QUEL OMM" Stamattina al Circolo Arci Corvetto il saluto degli amici e familiari
Oggi martedì 16 giugno, alle ore 11, presso il Circolo Arci Corvetto in via Oglio 21 a Milano, il saluto degli amici e dei familiari e l'abbraccio dei compagni dell'istituto Ernesto de Martino. Due anni fa, nel 2007, la Provincia di Milano ha prodotto un videodocumentario «A quel omm», una lunga intervista di quasi un'ora con Ivan Della Mea inframmezzata da filmati d'epoca e materiali originali, regista Isabella Ciarchi, nella collana Gente di Milano. Si comincia dalla scelta del nome, Luigi Della Mea all'anagrafe, ma i ragazzi dell'ex Convitto Rinascita (che poi confluirono in una sezione della gioventù comunista) si erano dati tutti nomi di battaglia russi e lui scelse Ivan. E si passa a raccontarne di ogni genere, da cantante di osteria ad appassionato di ping pong, dal bar Giamaica alla intatta capacità di sognare, con la genesi di «A quel omm», una canzone dedicata agli incontri notturni per le vie del capoluogo lombardo con Elio Vittorini, datata 1974. Pochi mesi fa è uscito «Antologia», il suo ultimo prodotto disocgrafico, un cd con 20 brani- tutti i suoi brani più belli e conosciuti, da «El me gatt» a «L'estremista», da «La nave dei folli» a «O cara moglie» - più un dvd col filmato «A quel omm», tutto su etichetta Alabianca.Per il manifesto aveva pubblicato due cd, «Ho male all'orologio» (1998) e «La cantagranda» (2000), ideati, suonati e realizzati tutti da solo. Aveva problemi da salute da tempo ma ha continuato a fare le cose che amava. In questi ultimi mesi ha ideato una ricerca con l'Arci di Firenze sulla storia delle case del popolo; il 25 aprile aveva suonato per la Festa della Liberazione a Fosdinovo (Carrara) dai compagni degli Archivi della Resistenza; era stato a Sesto Fiorentino all'Istituto Ernesto De Martino, che aveva diretto per 13 anni, per la conferenza stampa della rassegna Incanto; il 12 maggio aveva presentato l'ultimo numero della rivista «il de Martino», ad Acquanegra sul Chiese, paese natale di Gianni Bosio; il 28 maggio aveva suonato a Brescia per ricordare la strage di Piazza della Loggia; sabato 30 maggio era stato con Paolo Pietrangeli e Paolo Ciarchi a Montevarchi a cantare per il '68; il 3 giugno aveva scritto un appello al voto per Rifondazione comunista; venerdì 12 giugno il suo ultimo articolo sul manifesto dal titolo «Brucia compagno brucia».Nelle note di copertina del suo ultimo disco, scriveva «La sinistra per me è stata, è e sempre sarà, «questo pugno che sale - questo canto che va/ è l'Internazionale - un'altra umanità/ Questa lotta che eguale - l'uomo all'uomo farà/ è l'Internazionale. Fu vinta e vincerà». Ecco, vediamo di provare a vincere».

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