La tragedia di Hina Saleem, la ragazza pakistana uccisa dai familiari per essersi opposta alle tradizioni che le impedivano di avere un fidanzato italiano, continua a suscitare riflessioni nella nostra provincia.
La psicopedagogista bresciana Maria Grazia Soldati, docente di Pedagogia all’Università di Verona, ha appena pubblicato il saggio “Purdah o della protezione” (Franco Angeli editore, pagg. 160, euro 19), dedicato al tema della trasmissione culturale nelle famiglie migranti pakistane. Partendo dal dramma di Hina, Maria Grazia Soldati, con l’aiuto di mediatrici culturali, ha incontrato molte donne pakistane che vivono dalle nostre parti e nel libro racconta le loro storie con l’obiettivo di aiutare i lettori a comprendere la complessa identità femminile nella tradizione di quel paese orientale.
“Il 90% dei pakistani a Brescia sono punjabi, provenienti cioè dal Punjab, un’area divisa fra India e Pakistan quando avvenne la separazione” racconta l’autrice. “I punjabi non sono tutti musulmani, molti sono sikh, ma la religione si innesta su una medesima tradizione culturale”.
La parola chiave del libro è ‘purdah’. “Si legge ‘parda’ ed è un modo di stare nelle relazioni fra uomo e donna e fra diverse generazioni: nuora-suocera, nipote-zio ecc.” spiega la studiosa. “Si acquisisce attraverso l’educazione familiare e per le donne si manifesta anche attraverso la pratica del coprirsi con la sciarpa chiamata ‘dupatta’: non si tratta solo di nascondersi dagli sguardi maschili, ma può essere un segno di rispetto, per esempio in presenza della suocera”.
A questa tradizione appartiene anche il concetto di ‘sharam’, qualcosa a metà fra il pudore o vergogna. “È ciò che porta le donne a tacere o abbassare lo sguardo” precisa la Soldati. “La società pakistana è patriarcale: l’obiettivo dell’educazione di una figlia è prepararla a entrare in un’altra famiglia ed essere una buona moglie e madre”.
L’emigrazione dal Pakistan, la nascita dei figli in Italia, il confronto con il nostro stile di vita in cui è l’individuo e non la comunità a venire al primo posto fa scattare una serie di problematiche. “Per una ragazza punjabi - racconta la Soldati - uscire a mangiare una pizza con le amiche indossando i jeans può costituire una grave infrazione. Una giovane pakistana italiana, Rubina, ha scatenato un putiferio in famiglia perché ha osato incontrare un ragazzo pakistano conosciuto al telefono, cugino di un’amica della moschea. Quando si è rifiutata di uscire una seconda volta, lui l’ha denunciata al fratello maggiore. Rubina è stata picchiata e segregata in casa perché ha violato le regole del purdah, ha macchiato l’onore della famiglia. E lei, temendo il peggio, ha chiamato i carabinieri”. Ma qualche volta pure le forze dell’ordine e i nostri servizi sociali trovano difficoltà ad interagire con un universo valoriale così diverso dal nostro. E allora può essere utile reinventare la pratica del purdah, con il lavoro educativo e di cura, attraverso incontri narrativi al femminile corredati di dispositivi di mediazione etnoclinica.
Sul futuro la Soldati appare cautamente fiduciosa: “Anche il Pakistan sta cambiando. I ragazzi che tornano per le vacanze se ne rendono conto e vedono che a volte nell'applicare la tradizione sono più puriste le famiglie all’estero che in patria”.
Flavio Marcolini
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