lunedì 17 ottobre 2011

Chi si ricorda di György Lukacs?

A 40 anni dalla morte, la figura e le opere del pensatore ungherese sono sempre più sepolte nelle
biblioteche che, fra l’altro, dalle nostre parti sembrano autorizzate a disfarsi di volumi che non vengono consultati da più di 10. I suoi libri sono coperti dalle polveri del tempo per ragioni niente affatto casuali. Sulla rimozione culturale, oltre che politica, delle sue fulgide intuizioni, hanno certamente influito dapprima gli eventi che hanno condotto allo smantellamento del blocco filosovietico e poi, soprattutto, la madornale amnesia collettiva che ha colpito le sinistre un po’ in tutto il mondo.
Tuttavia per comprendere la complessità del presente è impossibile non soffermarsi sul pensiero di questo filosofo e critico letterario, erede della grande tradizione speculativa tedesca che va da Kant a Hegel a Marx. Questa tradizione pone al centro della propria riflessione la categoria della totalità, intesa da Marx come “il dominio determinante e onnilaterale dell’intero sulle parti”. L’analisi di Lukacs mira a scoprire i nessi e le mediazioni che collegano le parti fra di loro e con l’intero.
Ciò è evidente nell’impostazione del suo pensiero estetico e nella critica letteraria, ambiti che, lungi dal costituire luoghi di studio separati dal contesto sociale, hanno per lui il compito di contribuire alla sostituzione di ciò che l’esistenza è nella società borghese con ciò che dovrebbe essere, dell’uomo lacerato e scisso della società capitalistica con l’ “uomo intero” che ha nel socialismo la sua realizzazione.
Quando Lukacs approda al marxismo, fra il 1917 e il 1918, è già celebre per la sua avversione al proprio ambiente sociale (era figlio di un noto banchiere di Budapest) e a quella che lui chiama “epoca della compiuta peccaminosità”, che non consente alcuna riconciliazione con la realtà e che lo spinge a ricercare nell’arte quella vita autentica alla quale aspirava. Nella critica all’esistenza sempre più artificiale della civiltà capitalistica nella grande città moderna, della quale coglie la meccanicità in opposizione al carattere organico della vita comunitaria nelle epoche precedenti, si trova la radice del suo marxismo.
Già nella “Teoria del romanzo” (1920) Lukacs delinea una sorta di filosofia della storia comprendente sostanzialmente due epoche antitetiche: l’epoca greca, della vita piena dell’ “uomo intero”, in cui non è ancora avvenuta la scissione fra dimensione interiore ed esteriore, e l’epoca borghese, considerata, appunto, “della compiuta peccaminosità”. Espressione poetica della prima e l’epos, della seconda il romanzo, di cui traccia una evoluzione culminante nella “Educazione sentimentale” di Flaubert, tipico racconto della disillusione dell’individuo che scopre quanto la società e il mondo siano totalmente estranei ai suoi valori.
Impressionato dagli orrori del primo conflitto mondiale, Lukacs si iscrive nel 1918 al Partito comunista ungherese e partecipa al breve esperimento della Repubblica dei Consigli di Bela Kun. In questo periodo viene accusato di idealismo esasperato, sia dal movimento socialdemocratico che da quello bolscevico. Dopo la tragica fine di quell’esperienza, si rifugia prima a Vienna e, dopo l’avvento del nazismo, a Mosca dove rimane fino al 1945.
Tra i due schieramenti del movimento operaio internazionale, opta per quello comunista, benché debba ad esso pagare il prezzo dell’autocritica e dell’abiura delle opere giovanili. Come molti altri intellettuali, non sa “fare parte per se stesso” e, pur di contribuire alla lotta contro il nazifascismo, non esita ad abbracciare la causa ignobile dello stalinismo. Può così lavorare all’Istituto per il marxismo-leninismo di Mosca, dedicandosi agli studi, apparentemente neutrali, di estetica e critica letteraria ed elaborando quegli scritti che, pubblicati allora solo in parte nelle riviste dell’intellettualità antifascista, hanno poi visto la luce nel dopoguerra rivelando una sterminata mole di lavoro. Fra gli altri, sono da ricordare i “Saggi sul realismo”, quelli sulla letteratura tedesca, sulla storia dell’estetica e il fondamentale “Il romanzo storico”.
Le opere raccolte in Italia da Cesare Cases nel 1953 a formare il volume “Il marxismo e la critica letteraria” affrontano il problema di un’estetica fondata sul materialismo storico e dialettico. Per Lukacs ai classici del marxismo mancò il tempo per dare sistemazione definitiva alle proprie concezioni estetiche, assorbiti com’erano dall’attività politica e dalla riflessione sull’economia. Le concezioni estetiche di Marx e di Engels vanno quindi ricercate in scritti occasionali, lettere, frammenti e manoscritti: tale sterminata e multiforme congerie di materiali dimostra come i due furono per tutta la vita lettori attenti che non si limitavano a concepire la letteratura come uno svago.
Secondo loro l’arte e la letteratura rientrano nella totalità dello sviluppo storico, nel quale il momento economico è ‘soltanto’ il momento egemonico che determina tutti gli altri, compreso quello artistico. Tuttavia si sforzano di dimostrare che anche il momento economico è a sua volta influenzabile, spesso in modo decisivo, da altre sfere, considerate potenzialmente autonome.
E’ celebre il passo dell’Introduzione del 1857 ai “Grundrisse” sul piacere estetico che l’arte greca continua a procurare ai moderni. Marx riteneva che la società capitalistica non produca lo stadio più elevato dell’arte perché la divisione sfrenata del lavoro, la reificazione, l’alienazione e la mercificazione generale portano all’occultamento dei reali rapporti umani e alla perdita di quella ‘humanitas’ che è mezzo e fine dell’arte. Tuttavia egli non credeva (come invece sostenevano Bakunin e, più tardi, i nichilisti) che la condizione primaria per la costruzione di una società di uomini nuovi risiedesse nella distruzione completa delle produzioni (anche artistiche) del passato. Seppe valorizzare, ad esempio, la creatività rinascimentale e Lukacs ne riprende il pensiero quando afferma nell’ “Estetica”: “La realtà – e perciò anche il suo rispecchiamento e la sua riproduzione attraverso il pensiero – è un’unità dialettica, di continua e discontinuità, di tradizione e rivoluzione, di passaggi garruli e di salti. Lo stesso socialismo scientifico è qualcosa di completamente nuovo alla storia, ed è tuttavia insieme la realizzazione di un’aspirazione millenaria dell’umanità”.
Esaminando la letteratura della seconda metà dell’Ottocento, Lukacs la definisce come “espressione della decadenza ideologica della borghesia”. Dopo il 1848, anno in cui, parafrasando Marx, non se ne vanno solamente i re, la crisi del realismo sfociò da un alto nel naturalismo, dall’altro nel formalismo soggettivistico definibile con la formula “l’arte per l’arte”.
Respinto ovviamente il secondo, Lukacs sottopone a forte critica pure il primo. Con il suo culto per il rispecchiamento fotografico, il naturalismo secondo lui si pregiudica la possibilità di scavare sotto la superficie del reale e di cogliere le forze intime che muovono l realtà trasformandola radicalmente in continuazione. Cogliere il fatto puro e semplice, astraendolo da tutti i suoi rapporti e legami con la complessità sociale, è considerato dal pensatore il pesante limite di scrittori come Zola, Hugo e i veristi italiani.
Nel fatto singolare quindi deve trasparire il fatto universale, l’universalità. Ciò si realizza attraverso il particolare, categoria centrale dell’estetica lukacsiana. In letteratura la particolarità si incarna nel ‘tipo’, ossia nel personaggio artistico dotato di una precisa fisionomia intellettuale, caratterizzato come individuo ma portatore di valori universali. Numerosi sono gli esempi che offre: il personaggio di Socrate nel “Simposio” di Platone, Pierre Bezuchov e Nataša Rostava in “Guerra e pace” di Tolstoj, Rastignac nella “Comédie Humaine” di Balzac. Ma la figura forse più tipica è il Don Chisciotte di Cervantes: metafora difficilmente riscontrabile nella vita quotidiana, la sua battaglia contro i mulini a vento è però una efficacissima rappresentazione del tormentato tramonto degli ideali e del mondo della cavalleria di cui era espressione, per far posto alla nascente società borghese.
Naturalmente questa visione cela il pericolo di indurre a individuare il piatto rapporto immediato fra personaggio e universalità di cui esso è veicolo. La grandezza dell’artista sta appunto nel far emergere l’universalità del personaggio, la sua weltanschauung, i suoi interessi, la classe sociale a cui appartiene, in una parola la sua ‘tipicità’ in mezzo alla complessità e contraddittorietà della sua individualità. Da questa prospettiva, Lukacs considera Joyce, Proust e Kafka come i massimi esponenti della decadenza ideologica della borghesia perché i loro personaggi (Leopold Bloom in primis) sono espressione di quella mediocrità dell’esistenza verso la quale nutriva un odio viscerale: “L’attaccamento alla mediocrità deriva dall’incredulità storicamente necessaria in questo periodo, nell’eccezionale come reale aspetto dell’umana grandezza. La società capitalistica soffoca e immiserisce le capacità degli uomini”.
Il fatto di lavorare durante la guerra in uno dei templi della cultura stalinista non lo preserva dai sospetti e dalla repressione. Nel 1944 non è arrestato dalla polizia politica solo grazie all’intervento del dirigente bulgaro del Komintern Dimitrov. Le sue critiche nei confronti degli scrittori sovietici osservanti i canoni stabiliti per il realismo socialista sono numerose. Per Lukacs esso scade spesso a letteratura a tesi, l’estremo opposto del formalismo dell’arte per l’arte. La rappresentazione agiografica degli eroi del socialismo, contrapposta alla denigrazione dei sabotatori della rivoluzione, non consente di cogliere la complessità dei personaggi trasformatori, in parallelo, della realtà esterna e della propria dimensione interna.
E’ altrettanto ostile alla deformazione staliniana della partiticità dello scrittore, della funzione ancillare della letteratura nei confronti della politica del partito unico. Contro la concezione degli scrittori come “ingegneri dell’anima”, Lukacs ritiene che il possesso del metodo d’analisi marxista non sia di per sé garanzia di superiorità culturale e che Montaigne resterà sempre più interessante di un marxista mediocre perché lo scoiattolo dell’Himalaya non deve credere di essere più grande dell’elefante delle pianure.
Sulla questione del linguaggio e dei generi letterari, nel saggio “Lo scrittore e il critico”, dopo aver ricordato che il grande teorico è anche teorico dell’estetica che fa scaturire le proprie riflessioni dall’esito della propria arte, con la sua genuina tendenza verso l’oggettività, cita l’esempio di Manzoni, il quale partecipa al movimento per l’unità nazionale italiana e, stimolato da questi problemi concreti e storici, avvia un ripensamento della propria poetica e del proprio linguaggio. Da qui derivano la sua critica alla tragedia classica e la ricerca di un nuovo genere letterario che tenda all’oggettività, al rapporto tra arte e vita che, unito alla ricerca di un nuovo linguaggio, miri alla comprensione da parte del popolo e alla diffusione presso le masse. Il romanzo storico e la lingua toscana sono i mezzi con cui consegue tale scopo. Sotto questo aspetto, come si vede, l’annosa questione dei generi letterari cessa di essere astratta e vuota poiché attiene ai problemi fondamentali dell’arte.
Dopo la fine della guerra Lukacs torna in Ungheria. Nel 1956 è in prima fila nel processo del disgelo e inizia la sua denuncia dei crimini di Stalin e dello stalinismo. Membro del Circolo Petöfi che raggruppa gli intellettuali libertari, viene rieletto al comitato centrale del partito ungherese e diviene ministro dell’istruzione durante il primo governo Nagy. A seguito dei fatti dell’ottobre 1956 e della successiva repressione, viene deportato brevemente in Romania. L’anno seguente è di nuovo a Budapest dove, fino alla morte, si dedicherà esclusivamente agli studi.
Segnato dall’esperienza bellica e soprattutto dalle nefande conseguenze dello stalinismo, si convince della necessità di una rifondazione ideologica, politica e culturale del marxismo. Mentre da un lato è necessario un enorme lavoro scientifico per cogliere la realtà quale essa è e spiegare i fenomeni nuovi, dall’altro si impone il ritorno all’anima stessa del marxismo, il metodo dialettico. A partire dal 1955 il filosofo imposta un lavoro decennale che si concluderà con la stesura delle sue riflessioni in ambito etico ed estetico. Di particolare interesse è l’ “Estetica”, opera in cui filosofia della storia, ontologia, etica e politica sono mirabilmente fuse insieme avendo come centro la considerazione dell’opera d’arte. Il suo fine è l’analisi della funzione sociale dell’arte, la funzione che essa ha svolto e continua a svolgere nella storia dell’umanità. Ma contro ogni volgare sociologismo, contro ogni riduzionismo, il punto di partenza dell’analisi è sempre l’opera d’arte. Si tratta poi di ricostruire la sua genesi e il suo “mandato sociale”, cioè le sue radici storiche e sociali. Centrale in queste pagine è la categoria della “catarsi”, intesa come “liberazione dalle scorie dell’alienazione e dell’estraniazione”, l’effetto che l’opera d’arte autentica produce nel fruitore.
L’”Estetica” merita di essere ripresa e studiata, non solo perché secondo il suo autore l’educazione estetica è un momento importante dell’educazione politica, ma soprattutto perché segna il definitivo e consapevole superamento, anche in ambito artistico, della codificazione staliniana della “teoria della conoscenza marxista”.
Leggere oggi un pensatore della profondità e ampiezza di interessi di György Lukacs è fondamentale per comprendere le ragioni della crisi della letteratura e della società che il nostro tempo si trova a vivere. E’ necessario per ricomporre una prospettiva di trasformazione reale del pessimo stato di cose presenti.
Flavio Marcolini

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