domenica 12 agosto 2012

In marcia gioiosa e mai allineata



È un grigio giorno di marzo in Svizzera, a fine Ottocento, sulle rive di un lago che «splende con la superficie liscia color acciaio» - aria dolce e fresca, fiori gialli e ronzio di api, odore di erba e di miele. Una giovane donna scrive al suo innamorato, che dovrebbe raggiungerla e invece rimanda e rimanda, mentre lei a ogni treno va alla stazione sperando nel suo arrivo. «Mi trovo tanto sola qui. Non abbiamo passato in questo posto nemmeno tre settimane insieme. Andremo ancora in barca? E faremo una lunga gita in montagna? Sbrigati, cuore mio, vieni al più presto», lo prega; poi d'improvviso conclude la lettera con una ben diversa richiesta: «Non scordarti di portare il materiale sul cartismo».

Una voglia ostinata di felicità
Attraverso vicende tumultuose che segnano la storia del Novecento e un'esistenza che brevemente ma pienamente ne partecipa, nell'esperienza di Rosa Luxemburg convivono e si intrecciano sempre la cura del legame interpersonale e la centralità di un impegno politico fatto di studio e azione; così, in quel giorno di marzo attende con ansia Leo Jogiches, amante e compagno di lotta, ma anche «il materiale sul cartismo» utile alla conoscenza di questo movimento e delle sue battaglie nell'Inghilterra di primo Ottocento. E gode, come sempre sarà, della natura - attenta a coglierne suoni e odori per parteciparne appieno in un dialogo che saprà rasserenarla anche in prigionia: «Le cinciallegre mi assistono fedelmente davanti alla finestra, conoscono bene la mia voce e sembra che gli vada a genio se io canto», scriverà nel gennaio 1917 a Luise Kautsky, cui la lega un affetto non toccato dai dissensi col marito di lei.
Il desiderio di una semplice, quasi animale felicità la accompagna consapevolmente: «ho una voglia maledetta di essere felice e sono pronta giorno dopo giorno a combattere per la mia 'dose di felicità' con l'ostinazione d'un mulo» - scrive a Leo da Berlino nel 1898 - e questo desiderio non è per lei distinto né tantomeno opposto alla dedizione alla causa socialista. Tipico «rivoluzionario di professione» di grandi capacità organizzative, Jogiches era, per dirla con Hannah Arendt, «uomo d'azione e di passioni, e sapeva come agire e come soffrire» - vide il suo irruente comportamento nel deteriorarsi del rapporto con Rosa, fino a minacciarla di morte quando lei iniziò una relazione con il figlio di Clara Zetkin, Kosta. Ma forse non sapeva «come si ama», avrebbe osservato Rosa a dieci anni dalla tempestosa rottura, che non compromise però la stima e l'affetto radicati nella vicinanza di intenti. A Natale 1916 gli aveva mandato in dono una tavola di Turner che lui aveva rifiutato, ritenendo un «vandalismo» smembrare l'album cui essa apparteneva. «Autentico Leo, nevvero?» - commenta lei nella lettera a Luise già citata - e insiste che «se alla prima occasione mi vien voglia di calare a terra un paio di stelle per regalarle a qualcuno come gemelli da polso, nessun freddo pedante deve impedirmi col dito levato di portar lo scompiglio in tutti gli atlanti scolastici di astronomia».

Contro i toni piagnucolosi
Dopo la fase iniziale del rapporto con Jogiches, l'intensa attività politica - per Rosa in particolare intervallata da periodi in carcere - li aveva portati a vivere lontani, e nelle lettere lei ripetutamente chiede una parola gentile, una maggiore attenzione all'intimità e alla vita quotidiana degli affetti, che non cancellino ma rendano anzi più forte la comune tensione verso un mondo senza ingiustizie. Per lei era fondamentale «rimanere umani», saper «gettare con gioia la propria vita sulla grande bilancia del destino, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola», come scrive dalla prigione a Mathilde Wurm nel dicembre 1916, dopo aver inveito contro il «tono piagnucoloso» e «le povere anime da quattro soldi» della dirigenza del partito socialdemocratico tedesco (Spd), e essersi ripromessa - a fronte di tale viltà, che già aveva coinvolto il partito nell'appoggio alla guerra - di restare «dura come l'acciaio affilato» e, appena tornata libera, cacciare quella «compagnia di ranocchi con suono di trombe e schiocchi di frusta».
Tenera e severa, sempre fedele ai doveri della militanza rivoluzionaria e sempre affascinata dalla bellezza del mondo; pronta a precipitarsi «con tutte le mie dieci dita sulla tastiera mondiale, in modo che rimbombi», ma anche a far tesoro della solitudine forzata in prigionia rallegrandosi comunque «se le cose vanno bene anche senza di me», e accontentandosi di contemplare nuvole «sempre nuove e sempre più belle» - come scrive a Luise nell'aprile del 1917, mentre «agiscono e decidono le grandi invisibili, plutoniche forze del profondo» e lei è invece «per costrizione esterna (...) 'in permesso' per la storia mondiale».
Capace di mille sfaccettature e però coerente nell'apertura al cambiamento, Rosa voleva tutto. Poesia e lotta, amore e comunanza intellettuale, dolci sere profumate di fiori e infuocate riunioni politiche, una famiglia, dei bambini e la rivoluzione. Chiudersi ai piaceri della vita - l'arte, il sesso, la natura - per darsi senza esclusioni a un ideale, chiudersi infine alla propria interiorità - non è così che si costruisce il socialismo, se esso significa soprattutto, come era per lei, trasformazione profonda del modo di essere, insieme e oltre ai cambiamenti nell'organizzazione sociale e nelle strutture economiche.
Lamentando in una lettera a Robert Seidel la legnosità retorica della stampa della Spd, ne individuava la ragione nel fatto che «la gente dimentica quasi sempre, nello scrivere, di attingere alle più intime risorse interiori per misurare fino in fondo l'importanza e la verità» di quello che va sostenendo, e ripropone meccanicamente gli argomenti a favore della causa invece di «riviverla ogni volta, ogni giorno, ad ogni articolo (...) per trovare parole più fresche e più spontaneamente capaci di esprimerla». Quanto a lei, è decisa a cercare forme espressive fuori dalle regole, per poter «agire sulle persone come un tuono. Non per l'oratoria, ma per la ricchezza delle analisi, la sincerità delle convinzioni, la potenza dell'espressione», scrive a Jogiches nel 1899, mentre scopre e mette alla prova le sue capacità in un giro elettorale tra i minatori polacchi dell'Alta Slesia.
Donna, polacca, ebrea, con una fatale tendenza a «non marciare mai allineata» (e dunque anche a rifiutare identificazioni restrittive di nazionalità, sesso o cultura) - Hannah Arendt la definisce «una outsider (...) in un paese che non amava e in un partito che cominciò presto a disprezzare». A fronte di questo triplice svantaggio è la sua capacità di «agire sulle persone come un tuono» - in comizi e riunioni, attraverso gli scritti, nel lavoro alla scuola di partito - a farla accettare dalla dirigenza della Spd, cui non lesina critiche per l'atteggiamento attendista anche quando l'azione spontanea delle masse, vera levatrice della rivoluzione, chiederebbe ben diverso coraggio, e a cui soprattutto non perdonerà l'assenso alla guerra. Nel cuore della polemica che la oppone a Kautsky, Bebel scrive a Victor Adler di non voler rinunciare a lei, perché alla scuola è considerata da tutti «radicali, revisionisti e sindacalisti (...) come la miglior insegnante».
La accettano, dunque, ma come a malincuore, e senza mai davvero riconoscerle la statura di pensatrice teorica che giustamente rivendicava; aldilà di possibili critiche, è innegabile ad esempio che in L'accumulazione del capitale (1913), sottolineando per prima la centralità del problema della domanda, abbia posto con forza la questione dell'impulso del capitale a quella che oggi chiamiamo globalizzazione - con il riprodursi ovunque dei meccanismi produttivi e di consumo e con la preponderanza del capitale finanziario nella politica internazionale. Forse anche per questo, per non essere relegata a occuparsi della «questione femminile» lasciando agli uomini il campo della teoria marxista, non volle mai assumere un ruolo di primo piano nel movimento delle donne, pur apprezzando attivamente il lavoro in questo ambito dell'amica Clara Zetkin.
Sebbene avessero divergenze profonde, è Lenin che coglie e sottolinea la sua levatura, auspicando dopo la sua morte la pubblicazione completa dei suoi scritti perché servano «da utili manuali nella formazione delle future generazioni di comunisti di tutto il mondo». Giacché «un'aquila può a volte volare più basso di un pollo, ma un pollo non potrà raggiungere le altezze di un'aquila. Rosa Luxemburg (...)malgrado i suoi errori (...) era ed è un'aquila».

Arresti e clandestinità
Rosa aveva seguito con gioia e ansia gli avvenimenti della prima rivoluzione russa, e alla fine del 1905 era tornata clandestinamente nella natìa Polonia, clandestinamente lasciata dopo aver appena finito le scuole superiori perché già sotto controllo della polizia zarista, ma nelle cui vicende politiche era rimasta attiva, fondando con Jogiches il partito socialdemocratico della Polonia e della Lituania, in opposizione al partito socialista polacco di cui non condivideva le posizioni a favore dell'indipendenza nazionale. Ora anche lì si susseguivano scioperi spontanei, e malgrado i rischi lei voleva fare attivamente la sua parte. Verrà arrestata nel 1906, e in quell'anno scrive Lo sciopero generale, il partito e i sindacati, dura condanna del conservatorismo della burocrazia sindacale ed esaltazione dell'azione delle masse a preferenza dell'idea leninista di un partito rigidamente strutturato - in parte una ripresa di concetti precedentemente espressi in Questioni di organizzazione della socialdemocrazia russa (1904), in cui attaccava il «super-centralismo voluto da Lenin (IN QUANTO) dettato non da un'intuizione positiva e creativa, ma da uno sterile spirito da guardiano notturno. La sua prima cura è di controllare l'attività di Partito, e non di fecondarla; di restringere il movimento, piuttosto che di allargarlo; di soffocarlo, e non di educarlo».

Gli sbagli di Lenin
Di nuovo in carcere, nel 1918 Luxemburg dedica alla nuova rivoluzione russa, di cui pure è appassionata sostenitrice, un'analisi che ne mette in luce anche aspetti negativi; soprattutto non può accettare le scelte di ferrea e repressiva organizzazione adottate dai bolscevichi. «La libertà riservata soltanto ai seguaci del governo, ai membri di un partito - siano pure essi numerosi quanto si voglia - non è la libertà. La libertà è sempre la libertà di colui che pensa diversamente» dichiara senza infingimenti, affermando più oltre che: «La pratica del socialismo esige tutta una trasformazione intellettuale delle masse degradate da secoli di dominazione borghese. Nessuno lo sa meglio (DI) Lenin. Soltanto, egli si sbaglia completamente sui mezzi: decreti, potere dittatoriale degli ispettori di fabbrica, penalità draconiane, regno del terrore sono altrettanti palliativi. La sola strada che conduca alla rinascita è la scuola stessa della vita pubblica, la più larga e illimitata democrazia, l'opinione pubblica». Senza libertà «la vita muore in tutte le istituzioni pubbliche, essa diviene una vita apparente, in cui la burocrazia è l'unico elemento che resta attivo. (...) alcune dozzine di capi-partito, di una energia inesauribile e di un idealismo senza limiti, dirigono e governano; (...)un governo di consorteria, una dittatura, è vero, ma non la dittatura del proletariato: la dittatura di un pugno di politicanti, cioè una dittatura nel senso borghese».
Ma anche nella più aspra critica, rimane l'ammirazione per la rivoluzione e per i bolscevichi che si sono messi alla sua guida, e che certo non possono «pretendere di fare dei miracoli perché una rivoluzione proletaria esemplare e impeccabile in un paese isolato, esaurito dalla guerra, strangolato dall'imperialismo, tradito dal proletariato internazionale, sarebbe un miracolo».
Luxemburg sottolinea sempre che gli errori che denuncia - gravi e se non corretti forieri di peggiori sviluppi - sono in gran parte dovuti alle circostanze storiche, soprattutto alla colpevole ignavia della «socialdemocrazia di questo occidente altrimenti sviluppato (CHE) è composta di miserabili vigliacchi e lascerà dissanguare i russi, stando tranquillamente a guardare», come già scriveva nel novembre 1917 a Luise Kautsky.
In quella stessa lettera, malgrado avesse da poco dovuto affrontare anche il dolore della morte di Hans Diefenbach, forse il suo ultimo amore, Rosa insiste ancora una volta sulla necessità di saper godere e apprendere: «adesso abbiamo - almeno qui - così splendide miti giornate primaverili, le serate con la luna d'argento sono così belle. (...) Io sono immersa fin sopra le orecchie nella geologia (E) presa da paura se penso quanto poco ho ancora da vivere e quanto ci sarebbe ancora da imparare». Davvero le sue lettere «nel pieno della tormenta, nel pieno del massacro di tutta una giovane generazione (...) respirano la gioia di vivere», come scriveva Simone Weil recensendone una pubblicazione in Francia, e «manifestano un'aspirazione alla vita e non alla morte, all'azione efficace e non al sacrificio».

Il canto delle cinciallegre
Luxemburg aveva in verità poco ancora da vivere - sarà assassinata nel gennaio 1919, morendo come aveva desiderato «sulla breccia», anche se nel suo intimo si sentiva vicina piuttosto alle amate cinciallegre, tanto da volere sulla sua tomba niente più che «due sillabe: 'Zvi-zvi' (...) il richiamo della cinciallegra, che io imito così bene da farne accorrere un'enorme quantità, ogni volta che faccio il loro verso. (...) in questo zvi-zvi (...) c'è da qualche giorno (...) il primo leggero trasalimento della primavera imminente; nonostante la neve, il gelo e la solitudine, noi - le cinciallegre e io - crediamo nell'arrivo della primavera!», aveva scritto nel febbraio del 1917 a Mathilde Jacob. È quella che Weil chiama «la concezione stoica della vita» di Rosa Luxemburg, capace di «essere a casa propria nell'universo, qualunque evento vi si possa produrre» - una «gioia e amore per la vita (FONDATE) nel suo spirito e nella sua forza morale. Per questo ancora oggi possiamo seguire il suo esempio».

(Paola Bono, il manifesto, 11 agosto 2012)

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