Il motivo per il quale ci ritroviamo qui
oggi è la commemorazione dei caduti calcinatesi nella grande guerra,
specialmente coloro che vennero
volutamente omessi dagli elenchi ufficiali o dimenticati.
Le giunte municipali, le associazioni
patriottiche e combattentistiche produssero per tutta la durata della guerra e
negli anni successivi gli inventari “ufficiali” dei caduti; coi dati raccolti
furono dapprima iscritte le lapidi commemorative, affisse sulla facciata del
municipio e nei due cimiteri del capoluogo e di Calcinatello. Da una di queste
elaborazioni statistiche si estrapolò l'elenco degli 83 “calcinatesi”
perpetuati nel monumento ai caduti eretto sulla facciata della torre civica e,
successivamente, commemorati nel parco delle rimembranze realizzato nel prato
posto dietro ad essa. Si stabilì, come criterio selettivo, di considerare
“cittadini calcinatesi” soltanto coloro che fossero risultati residenti nel comune alla data di morte o della
dispersione, escludendo di fatto tutti i nativi che, per motivi legati
all'emigrazione interna, avevano fissato altrove la loro residenza. Ciò
determinò che molti altri caduti, calcinatesi di nascita, non fossero compresi
negli elenchi ufficiali e conseguentemente non venissero ricordati nel
monumento, in quanto «presumibilmente sarebbe stata cura dei comuni di ultima
residenza rendere loro testimonianza». Tale ipotesi si rivelò eccessivamente ottimistica
e, molto probabilmente, qualcuno dei caduti emigrati rimase dimenticato, dato
che ancora alla metà degli anni '20, quando ormai quasi tutti i comuni della
provincia avevano realizzato i propri monumenti, l'Archivio di Stato di Brescia
inviava ripetuti solleciti al comune di Calcinato per ottenere notizie su
alcuni di loro. Non sempre fu possibile ottenere informazioni rapide e corrette
sui caduti emigrati dal luogo di nascita: la compilazione manuale dei documenti
cartacei, con la conseguente crescita esponenziale di errori di ortografia
generò confusioni e fraintendimenti sulle loro generalità, causando numerosi
scambi di persona accentuati dalla difficoltà ad ottenere dati precisi dai
familiari, molti dei quali ancora analfabeti, e collegamenti rapidi soprattutto
con gli enti militari di appartenenza.
Anche la frequente confusione nei documenti ufficiali, primo fra tutti l'Albo
d'Oro redatto dal Ministero della Guerra per celebrare i caduti di ogni provincia
italiana, ed il non raro scambio del toponimo “Calcinato” con quello del comune
bergamasco di “Calcinate” (e viceversa!) contribuì ad accentuare lungaggini
burocratiche e dispersione di documenti e richieste. Sulla scorta di queste
considerazioni, è stato possibile attraverso l'incrocio di più fonti
archivistiche analizzate durante lo sviluppo della ricerca “Calcinato, Zona di
Guerra”, giungere ad una quantificazione corretta del numero dei caduti
“calcinatesi” dando risalto anche a quelli dimenticati ed omessi, che risultano
essere 31. Tra i nativi calcinatesi “dimenticati”, vi è per esempio, il
bedizzolese d'adozione Pietro Giuseppe Garatti, che fin dall'estate del 1914
combatté sul fronte francese come volontario nel 1° reggimento di fanteria
della Legione Straniera, e morì 1 aprile 1916. Anche il carrettiere Tommaso
Tognini, risulta tra gli “omessi”, in quanto condannato all'ergastolo per
diserzione nel dicembre 1917, e morto il 25 ottobre, nella casa penale
dell'isola dell'Asinara. Cesare Sigurtà, nativo di Ciliverghe ma effettivamente
residente a Calcinato all'atto della morte avvenuta il 12 marzo 1918 per
deperimento organico nel campo di prigionia di Milowiz in Boemia, era invece
caduto prigioniero il 25 ottobre 1917 a Canale d'Isonzo durante lo sfondamento
di Caporetto; molto probabilmente dovette condividere insieme ad altre
centinaia di migliaia di soldati italiani il pregiudizio e la stigmatizzazione
riservata dai politici e dall'opinione pubblica benpensante a chi era caduto
prigioniero durante quel disastro. Le direttive ministeriali emanate nel
dopoguerra ai sindaci li invitavano chiaramente nel redigere gli elenchi dei
caduti ad ispirarsi al criterio di una «stretta e necessaria dipendenza delle
circostanze della morte dalle ragioni della guerra e della dignità del militare
d'essere ricordato ai posteri come nobile vittima di una grande causa. E'
superfluo dire che di un disertore morto in prigionia ovvero di un
autolesionista deceduto in seguito al suo delitto, sarebbe assurdo parlare».
Orfano dei due genitori e praticamente ignorato dai familiari già in una
situazione precedente quando ancora era in vita, Cesare Sigurtà non trovò
nessuno disponibile a patrocinarne la sua iscrizione nel monumento, fatto che
avrebbe significato un'implicita “riabilitazione” da un'accusa per la quale non
poté mai difendersi.
A quasi un secolo di distanza dalla Grande
Guerra è soprattutto sulla comprensione dei significati profondi di
quell'esperienza che dobbiamo ancora confrontarci, approfondirne le
implicazioni e gli esiti, politici, economici, sociali ed antropologici, per restituire
di quella tragedia sociale, prima che politica, un'immagine più coerente con
l'evoluzione degli anni che la seguirono. Si può ben definire la dinamica
interna di quel conflitto come guerra di stato imposta al popolo; perché le
classi dirigenti liberali, servendosi dell'apparato repressivo dello stato
costrinsero i “sudditi”, ed in particolare le classi subalterne recalcitranti,
ad affrontare la morte per una causa nella quale non si riconoscevano. Oggi,
attraverso una militanza intellettuale indipendente da sovrastrutture
politico-ideologiche, da tradizionalismi, condizionamenti religiosi,
costruzioni moraleggianti dei concetti di onore e dovere, possiamo liberamente
interrogarci sul perché tutto ciò sia potuto accadere. Quando nell'aprile del
1915 il presidente del consiglio Salandra, preoccupato della scarsa
condivisione manifestata dai ceti popolari per gli ideali patriottici, chiese
ai prefetti di relazionarlo sull'orientamento dell'opinione pubblica, in vista
dell'imminente entrata in guerra, il prefetto di Piacenza gli rispose che
«L'agricoltore,
il contadino poco evoluto che non afferra il senso dei grandi ideali della
patria, si arresta con la sua mentalità ai danni diretti da lui più
intensamente e immediatamente sentiti dalla partenza dei propri figli per la
guerra, partenza che, oltre al dolore angoscioso, produce un grave dissesto per
la coltivazione del campo che rappresenta la vita di queste anime semplici». «Si sa – diceva
peraltro il prefetto di Chieti – che
nessuno pensa di invadere il territorio della patria e che nessuno ha attentato
alla sua dignità: quindi non si vede alcuna ragione di entusiasmarsi all'idea
di una guerra». Gli replicò il prefetto di Sondrio che «la classe dei contadini segue passivamente
l'indirizzo delle classi dirigenti ed è a ritenersi che finirebbe con acconciarsi, con rassegnazione, a
qualsiasi eventualità». Il segno negativo che era in questa “rassegnazione”
di popolo, costantemente esposta all'usura di eventi non calcolabili, non fu
preso in minima considerazione, e invece la letteratura di guerra vi ricamò
sopra simboli e miti abbaglianti, idealizzando la rassegnazione come condizione
naturale-storica dei gruppi sociali subalterni e, conseguentemente delle truppe
composte in maggioranza da contadini. Si fece così la demagogia dell'”esercito
contadino”, si costituì l'immagine compiaciuta del “contadino ingenuo e buono,
infinitamente rassegnato, paziente, disposto all'obbedienza, remissivo,
religioso e conservatore, con quella personalità infantile ed ottusa, che lo
rendeva naturalmente sottomesso ed ubbidiente. Il frate francescano Agostino
Gemelli, pioniere degli studi psicologici in Italia fu l'ideologo dell'apatia
come naturale forma di consenso delle classi subalterne per le conclusioni
razzistiche alle quali giunse coi suoi studi, che offrirono il conforto della
scienza ai metodi autoritari e repressivi del comando supremo del regio
esercito che li aveva commissionati. Ma in Italia i ceti subalterni avevano
iniziato già da tempo a ribellarsi al
ruolo di “classi funzionali” che era stato loro riservato da un sistema
politico e sociale strutturato su concatenazioni di
autorità-coercizione-subordinazione-obbedienza nel quale anche la chiesa svolgeva
un ruolo fondamentale per la conservazione del potere delle classi elevate,
essendo forza politica ancora
squisitamente conservatrice e reazionaria. La riforma elettorale del
1912 con l'allargamento del suffragio maschile e l'affacciarsi alla ribalta
politica dei partiti di massa, aveva dimostrato che la società civile si era
messa in movimento assumendo coscienza
di sé, e che le masse rivendicavano i propri diritti senza richiederne
il placet alle classi dirigenti, dimostrando che, se necessario,
avrebbero potuto anche ricorrere alla forza per ottenerli. La decisione
dell'entrata in guerra dell'aprile 1915 dimostrò invece che la volontà popolare
poteva ancora essere piegata con le maniere forti da chi poteva contare sul
controllo dell'apparato repressivo dello stato. I ceti possidenti e conservatori
furono determinati così a risolvere, anche in politica interna ed una volta per
tutte, i conti con i propri antagonisti di classe, ed a conservare le posizioni
di privilegio attraverso le quali poter mantenere la base della piramide
sociale in stato di soggezione: quasi che il fascismo, inteso come svolta
reazionaria organizzata fosse già nell'aria ben prima dell'ottobre 1922.
«Un popolo lo si manda e lo si tiene alla
guerra con la forza o con i miti. Meglio con tutti e due. La tradizione militare
della quale il Cadorna fu il massimo esponente puntò sulla coercizione;
gli interventisti democratici allargarono la buona coscienza dei loro miti
democratici, parlando di disciplina di persuasione; gli interventisti
nazionalisti e i governi vollero la sintesi dei due elementi, forza e mito. ». E così, l’immagine
di una guerra crogiolo di una sia pur tardiva identità collettiva, coincise da
subito con il mito della Grande
Guerra, gettando le premesse per un artefatto destino di future, “immancabili”
grandezze, di esaltazione della gloria militare, di spontanea adesione ai
valori guerreschi, capaci di accomunare, finalmente, classi dirigenti e classi
popolari, possidenti e lavoratori: questa l’immagine vittoriosa della Nazione,
che il fascismo avrebbe enfatizzato ed
amplificato (espellendone, naturalmente, in quanto anti-italiani, gli
oppositori); le radici dei cosiddetti “destini imperiali” cui Mussolini avrebbe
poi guidato tragicamente l’Italia, conducendo al disastro un paese istupidito
dalla retorica nazional-fascista, affondano nella “prova suprema” della Grande
Guerra, nella conquistata (presunta) compattezza del corpo sociale. Con il
regime si intensificò una martellante strategia tesa a trasformare la tragedia
sociale della Grande Guerra in un’epopea di condivisi sacrifici, di geniali
strategie, di unanimi eroismi. Attraverso
l'educazione scolastica, si costruì la rappresentazione di un esteso monumento
nazionale in cui l'esperienza bellica di ogni combattente caduto sembrò
diventare paradigmatica ed esemplare nel
formare una teoria infinita di eroi, al fine di costituire una sorta di
unica monografia patriottica [rispettando] l'esigenza di non stravolgere
l'immagine stereotipata di un popolo e di una società tesi in un corale slancio
patriottico. Si ritrovano chiaramente tutti i riferimenti che riconducono
l'esperienza della Grande Guerra nella tradizione risorgimentale ed evidenziano
la necessità di renderla un evento edificante da percepire e da rielaborare
intorno all'asse virtuoso Dio-Patria-Famiglia, dove, in una concezione
spiccatamente idealista la storia è mossa dai grandi aneliti, espressi
soprattutto nelle testimonianze patriottiche degli ufficiali, rappresentanti di
élites che
si esauriscono in sé stesse e non si pongono il problema di essere
organicamente legate alle grandi masse nazionali.
Perciò, anche per dovere di chiarezza oggi,
«proprio
muovendo con vigilanza ai valori alternativi che gli studi più autorevoli sulla
prima guerra mondiale hanno affacciato, possiamo porci liberamente, da
cittadini e non da sudditi, tutta una serie di fondamentali interrogativi: uso
e scopo politico, guida economica e militare, costo materiale e costo umano,
dinamiche di classe, condivisione e dissenso. Le risposte risultano, per
implicazione, fortemente responsabilizzanti: 1) la guerra non fu
popolare-nazionale; 2) la guerra, per la classe che la diresse, fu un modo
diverso di continuare una politica di conservazione; 3) la guerra non ebbe fini “risorgimentali”; 4) la guerra non
ebbe il consenso delle masse popolari. 5) I sacrifici
sopportati durante la guerra non furono uguali per tutti e ciò approfondì
ulteriormente le divaricazioni di classe esistenti. 6) la guerra
non fu “rigenerazione morale” e “unificazione civile” del paese, ma accelerò il
processo distruttivo e di scompaginamento delle sue strutture politiche e
sociali». Se,
una tesi largamente diffusa e non priva di fondamento sostiene che l'unità
d'Italia è stata comunque cementata dalla prova della prima guerra mondiale,
gli indici di renitenze e diserzioni ci ricordano anche che coloro che non
vollero scendere nelle trincee, che si rifiutarono di identificarsi nello
Stato, non erano una sparuta minoranza:
gli oltre 470.000 renitenti refrattari, i circa 4.000 disertori con passaggio
al nemico, i più di 1.000 fucilati o vittime di esecuzioni sommarie, i 380.000
militari condannati per reati penali di cui 20.000 a pene maggiori di 20 anni
di carcere, testimoniano nel 1915-1918
l'area del dissenso nella quale si riconosce l'emersione di un fenomeno ben più
ampio di atteggiamenti reattivi che si manifestarono non solamente attraverso
la passività e la rassegnazione, ma anche l'intenzione agita». Perché chi si
credette in dovere, per i nostri “supremi interessi», che furono interessi prevalentemente
di classe, di trascinarci sui sentieri di guerra, lo fece sempre in condizioni
di colpevole, criminale incompetenza ed impreparazione tecnica-militare,
aggiungendo sciagura a sciagura». E soprattutto perché non chiese a colui che
la guerra dovette combatterla più che gli altri, il contadino
poco evoluto che non afferra il senso dei grandi ideali della patria, se si
identificasse e sentisse partecipe degli “alti destini” d'Italia. Giacché
Gemelli lo aveva definito “uomo essenzialmente fattivo e produttivo”, portato
quindi ad accettare “ciò che viene detto da altri uomini destinati a pensare
come egli è destinato a produrre», si preferì obbligarlo, o persuaderlo, se
volete, col fucile puntato alla schiena ad uscire dalla trincea per andare all'assalto
e versare il proprio sangue sul “campo dell'onore”.
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