giovedì 11 dicembre 2014

Domani è sciopero generale

Lo scio­pero gene­rale gode di uno sta­tuto del tutto par­ti­co­lare. Su di esso con­ver­gono aspet­ta­tive e valori sim­bo­lici, per­fino mito­lo­gie, che ecce­dono pale­se­mente i con­sueti con­fini di una ver­tenza sin­da­cale. È nella sua stessa natura il com­pito di pro­porsi obiet­tivi che riguar­dino tutti, o almeno tutti i lavo­ra­tori. Per que­sto esso rap­pre­senta il punto in cui la dimen­sione sin­da­cale e quella poli­tica rive­lano la mas­sima con­ti­guità. A mag­gior ragione in un tempo in cui la distin­zione tra poli­tica ed eco­no­mia appare sem­pre più priva di fondamento.
Ma pro­prio per que­ste sue carat­te­ri­sti­che lo scio­pero gene­rale deve fare i conti con le tra­sfor­ma­zioni subite, nel tempo, dalla società e dalle forme del lavoro. Quei tutti si pre­sen­tano oggi assai più diso­mo­ge­nei e arti­co­lati di quanto non fos­sero una tren­tina di anni fa. In larga parte il loro con­tri­buto alla «pro­du­zione di società» non è nean­che rico­no­sciuto come atti­vità lavorativa.
Molti, disoc­cu­pati, pre­cari, auto­nomi non dispon­gono nem­meno di un lavoro che possa essere sospeso, eppure rap­pre­sen­tano un ele­mento deci­sivo di quella dimen­sione «gene­rale» alla quale lo scio­pero dovrebbe rivolgersi.
Agire su que­sto piano signi­fica uscire (senza benin­teso tra­scu­rarla) dalla sola con­di­zione del lavoro dipen­dente non­ché dall’illusione che un giorno tutti pos­sano rien­trarvi secondo la mito­lo­gia della «piena occu­pa­zione». Que­ste carat­te­ri­sti­che spie­gano per­ché sia tanto dif­fi­col­toso pro­cla­mare uno scio­pero gene­rale e, ancor più, garan­tirne il suc­cesso e con­se­guirne gli obiet­tivi. Inclu­dere gli esclusi da tutele e diritti nella sua sfera di azione.
L’ Ita­lia è un paese spic­ca­ta­mente cor­po­ra­tivo con una tenace tra­di­zione plu­ri­se­co­lare. In fondo il fasci­smo aveva visto giu­sto nello scom­met­tere su que­sta ere­dità sto­rica. Non sono poi molti i pas­saggi della sto­ria ita­liana in cui la gab­bia cor­po­ra­tiva è stata deci­sa­mente scar­di­nata: le camere del lavoro nell’ultimo decen­nio dell’Ottocento, la resi­stenza anti­fa­sci­sta, appunto, la sta­gione con­flit­tuale a cavallo tra gli anni Ses­santa e Set­tanta del secolo scorso. Tutte fonti di ispi­ra­zione for­te­mente appan­nate o del tutto tra­vi­sate nel loro signi­fi­cato e nel loro insegnamento.
La «casta», con la sua tona­lità sacrale ed euge­ne­tica, è una defi­ni­zione deci­sa­mente fuor­viante sep­pure insi­sten­te­mente appli­cata al nostro ceto poli­tico, il quale non è in realtà altro che una cor­po­ra­zione non diversa (con buona pace di Max Weber) da quella dei notai, dei far­ma­ci­sti, dei tas­si­sti o dei gior­na­li­sti. Una cor­po­ra­zione impe­gnata nella con­ser­va­zione di se stessa, della pro­pria orga­niz­za­zione del lavoro e delle regole di accesso al «mestiere». Sol­tanto un po’ più potente delle altre cor­po­ra­zioni, ma ispi­rata da una logica analoga.
A que­sto si ritorna, dopo l’esecrato ten­ta­tivo ber­lu­sco­niano di sosti­tuire alla forma cor­po­ra­tiva quella della com­pa­gnia di ven­tura e dell’esercito mercenario.
L’antica tra­di­zione dei mestieri e della loro auto­di­fesa soprav­vive anche nell’organizzazione sin­da­cale «per cate­go­rie». Se è vero che esi­ste una «con­fe­de­ra­zione gene­rale» che le riu­ni­sce tutte per rap­pre­sen­tare l’interesse dell’insieme dei lavo­ra­tori, è anche vero che nella defi­ni­zione dei con­fini di que­sto inte­resse, dei suoi organi di governo e delle sue forme di azione pesano i rap­porti di forze, nume­rici e poli­tici, tra le diverse «cate­go­rie». Senza con­tare le pre­ro­ga­tive pro­prie del «mestiere di sin­da­ca­li­sta». Il sistema fu desta­bi­liz­zato alla fine degli anni Ses­santa e nei primi Set­tanta dall’irruzione dell’«operaio massa», e dalla con­se­guente «socia­liz­za­zione» della con­di­zione ope­raia, ma si è poi rior­ga­niz­zato nel corso di una lunga sta­gione di con­cer­ta­zione e di arre­tra­mento. La vicenda è nota. Nel frat­tempo si con­su­mava un gigan­te­sco esodo verso il pre­ca­riato e verso con­di­zioni di vita e di atti­vità non più cer­ti­fi­ca­bili come «lavoro», verso l’immiserimento e la fram­men­ta­zione delle fonti di red­dito cui si aggiun­geva il pro­gres­sivo sman­tel­la­mento del welfare.
È pro­prio que­sto pro­cesso a creare per la prima volta le con­di­zioni per una solu­zione di con­ti­nuità con la tra­di­zione cor­po­ra­tiva che ci tra­sci­niamo die­tro da secoli. Atti­vità fon­date sull’intermittenza, sull’incertezza, sull’occasione, sulla con­ti­nua ricon­ver­sione del pro­prio agire, spesso con­si­de­rate una sem­plice fase di tran­sito tra una con­di­zione e un’altra, si col­lo­cano agli anti­podi di ogni pro­spet­tiva cor­po­ra­tiva. Lo stesso mondo rela­zio­nale del lavo­ra­tore pre­ca­rio, auto­nomo o sotto con­tratto a ter­mine, non si lascia rac­chiu­dere entro uno spe­ci­fico ambiente pro­fes­sio­nale. A costi­tuirlo non sono le rela­zioni con il simile, ma con il diverso. Il pre­ca­rio non ha «col­le­ghi» più solidi di un occa­sio­nale com­pa­gno di strada, ma una infi­nità di sog­getti ne con­di­vi­dono la con­di­zione di sfrut­ta­mento e di ricatto. I ter­mini «gene­rici» della sua vita attiva gli con­fe­ri­scono, appunto, un carat­tere «gene­rale» che non si lascia orga­niz­zare in nes­sun sistema di «cate­go­rie». Sep­pure dei «pre­cari» stessi si sia soliti ragio­nare come di una spe­ci­fica «cate­go­ria» da affian­care a quelle del lavoro dipen­dente nelle quali finirà coll’essere rias­sor­bita e addo­me­sti­cata. Ma pro­prio per­ché la con­di­zione pre­ca­ria resta inde­fi­nita, irri­du­ci­bile al «par­ti­co­lare», i suoi inte­ressi si svi­lup­pano piut­to­sto in una dire­zione neces­sa­ria­mente uni­ver­sa­li­stica. Anche se, con­verrà sot­to­li­nearlo, nell’ambito del lavoro pre­ca­rio non man­cano sog­getti desi­de­rosi di essere rico­no­sciuti (e pre­miati) per la pro­pria spe­ci­fi­cità pro­fes­sio­nale. Nella qual cosa non vi sarebbe nulla di male, se non nel pren­dere cor­po­ra­ti­va­mente le distanze da quell’interesse di tutti, che costi­tui­rebbe il prin­ci­pale ele­mento di forza del lavoro auto­nomo e intermittente.
Que­sto feno­meno mette però pie­na­mente in luce un pro­blema. Sfug­gire a una forma di orga­niz­za­zione cor­po­ra­tiva non signi­fica ancora averne indi­vi­duata una diversa. Se le cor­po­ra­zioni hanno svi­lup­pato al loro interno soli­da­rietà e coe­sione, nel mondo del lavoro «gene­rico e gene­rale» regna la «com­pe­ti­ti­vità», la con­cor­renza. Sfrut­tare la com­pe­ti­zione tra i sin­goli con­tro l’arroccamento cor­po­ra­tivo, ma anche con­tro la legit­tima auto­di­fesa del lavoro dipen­dente, è pre­ci­sa­mente la stra­te­gia per­se­guita dalla cosid­detta riforma del mer­cato del lavoro. Con­trap­porre, cioè, un par­ti­co­la­ri­smo coeso a un uni­ver­sa­li­smo disgre­gato, il soli­da­ri­smo del lavoro dipen­dente alla com­pe­ti­ti­vità di quello autonomo.
Acce­dere al piano di una lotta gene­rale impli­che­rebbe, invece, che gli uni e gli altri ricon­si­de­rino la pro­pria con­di­zione rispetto all’elemento che gli difetta. Il rap­porto tra «scio­pero gene­rale» e «scio­pero sociale» si gioca tutto intorno a que­sto nodo.
Altri­menti l’interesse di tutti, rischia di assu­mere tratti inquie­tanti. Come quel nazio­na­li­smo aggres­sivo in cui il fasci­smo faceva con­fluire il destino uni­ta­rio dello stato cor­po­ra­tivo. Il cosid­detto «inte­resse del paese», la pan­to­mima del brac­cio di ferro con l’Europa dei «fal­chi», la reto­rica patriot­tica e l’orgoglio di fac­ciata del «noi» nazio­nale, magari accom­pa­gnato da pul­sioni xeno­fobe, fini­ranno col sosti­tuire il reci­proco rico­no­sci­mento tra i sog­getti fal­ci­diati dalla crisi e dal suo governo. È la favola del «sistema paese», dove gli 80 euro in busta paga con­vi­vono con la tas­sa­zione furi­bonda del lavoro auto­nomo, con i licen­zia­menti, con l’esclusione sociale, con il dila­gare del lavoro gra­tuito e sot­to­pa­gato, con i pri­vi­legi cor­po­ra­tivi che uno scio­pero che si voglia dav­vero «gene­rale» dovrebbe ini­ziare a smon­tare nei fatti. Sarebbe bello poterci credere.
Marco Bascetta, il manifesto, 10.12.2014

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