Proprio nei paesi in cui la Shoah è stata oggetto di
commemorazioni ufficiali e politiche educative, ha suscitato la
creazione di musei e memoriali, ispirato numerose opere letterarie e
cinematografiche, fino a essere protetta da leggi speciali che prevedono
condanne severe per chi osi violarle, proprio qui – è la tesi dalla
quale prende le mosse il nuovo saggio di Valentina Pisanty, I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe
(Bompiani, pp. 256, € 13,00) – razzismo e xenofobia hanno conosciuto
una crescita esponenziale, negli ultimi vent’anni. Qualcosa non
funziona.
Difficilmente contestabile, questa diagnosi mostra impietosamente
come la memoria pubblica dell’Olocausto si sia trasformata in una
macchina ipertrofica che gira a vuoto, finalizzata a preservare sé
stessa anziché svolgere una funzione civile, e sempre più sconnessa dai
processi di fabbricazione sociale e culturale del razzismo e della
xenofobia. Dopo essere stata convertita, come scrive Pisanty, in una
«forma narrativa vuota», questa memoria reificata e neutralizzata può
prestarsi agli usi peggiori: quelli, per esempio, di chi la brandisce
come alibi per potere più comodamente predicare l’odio.
La memoria pubblica della Shoah è cosa diversa dal trauma
dell’esperienza vissuta e dal ricordo che ne scaturisce, incarnato dai
sempre più rari sopravvissuti dei campi nazisti. Essa ha i suoi
«guardiani» – associazioni, istituzioni e personalità regolarmente
sollecitate dai media – che ne amministrano le pratiche e le forme. I
guardiani parlano in nome delle vittime e gestiscono la posterità di un
evento della storia europea che, secondo la formula ormai canonica di
Elie Wiesel, possiede una dimensione assolutamente unica e al contempo
universale. La singolarità della Shoah, affermava Wiesel parlando a nome
degli ebrei, ne fa «un capitolo glorioso della nostra storia eterna»,
mentre il suo carattere universale impone di preservarne la memoria come
un dovere etico, una sorta di imperativo categorico del nostro tempo.
Ciò permette di selezionare e riformulare le richieste di riconoscimento
pubblico di altri genocidi e crimini contro l’umanità conformandoli al
lessico specifico dell’Olocausto, fondato sulla dicotomia normativa tra
carnefici e vittime: è avvenuto in Ruanda, dove il nazionalismo hutu è
diventato un nazismo tropicale; in Ucraina e in America latina, dove
l’Holodomor, la collettivizzazione delle campagne nell’URSS degli anni
Trenta, e la repressione delle dittature militari degli anni Settanta
sono diventate genocidî; e infine al di là dei Pirenei, dove la
repressione franchista è stata ribattezzata dallo storico Paul Preston
«l’Olocausto spagnolo».
La gestione dell’Olocausto come un lascito, un’eredità, un bene
patrimoniale trasforma i suoi «guardiani» in manager della memoria
spesso chiamati a definire i siti destinati ad accogliere musei e
memoriali, ad amministrare fondi per l’organizzazione di mostre e viaggi
scolastici, a finanziare opere d’arte e restaurare siti o edifici.
Talvolta si fanno carico di vere e proprie trattative commerciali, come
avvenne anni fa quando le associazioni americane dei guardiani della
memoria (a differenza di quelle europee) ingaggiarono un agguerrito team
di avvocati d’affari per negoziare con le banche svizzere la
restituzione dei beni espropriati agli ebrei fuggiti dal III Reich.
In tempi recenti, la memoria della Shoah è diventata il vessillo
delle istituzioni internazionali. Nel 2000, i rappresentanti di
quarantasette paesi riuniti a Stoccolma hanno solennemente sottoscritto
un testo comune secondo il quale «l’enormità dell’Olocausto deve essere
per sempre stampata a lettere di fuoco nella nostra memoria collettiva».
Dichiarazioni analoghe sono emanate dall’Unione Europea, dove i crimini
del nazismo vengono in genere affiancati a quelli del comunismo al fine
di accontentare i nuovi membri provenienti dall’ex blocco sovietico.
Divisa sulle politiche di accoglienza dei profughi, l’Unione Europea è
sempre unanime quando si tratta di pauperizzare la Grecia, privatizzare
i servizi o commemorare l’Olocausto. Da un lato discute sul modo più
efficace di impedire l’esodo di chi fugge guerre e violenza – se
necessario finanziandone l’internamento nei campi libici – e dall’altro
commemora le vittime dei campi nazisti. Priva di un assetto federale e
di istituzioni democratiche dotate di poteri effettivi, l’Unione Europea
si sta profilando, dietro la facciata di un Parlamento decorativo, come
un mostruoso binomio: l’eurogruppo dei ministri delle finanze
affiancato dalle liturgie della Shoah; lo stato d’eccezione neoliberale
unito al «dovere della memoria». Non stupisce che, così strumentalizzata
e avvilita, questa memoria perennemente invocata non abbia più nessuna
efficacia nella lotta contro un razzismo dilagante.
La Shoah, sosteneva Habermas, è il trauma che ha lacerato il tessuto antropologico sul quale poggiava la storia europea. La scelta di fondare la religione civile delle democrazie occidentali sulla memoria di questo evento ha senso se essa viene connessa al mondo di oggi, se viene indirizzata contro le culture e le pratiche xenofobe che si espandono paurosamente nel presente.
La Shoah, sosteneva Habermas, è il trauma che ha lacerato il tessuto antropologico sul quale poggiava la storia europea. La scelta di fondare la religione civile delle democrazie occidentali sulla memoria di questo evento ha senso se essa viene connessa al mondo di oggi, se viene indirizzata contro le culture e le pratiche xenofobe che si espandono paurosamente nel presente.
Edificata come culto del ricordo fine a sé stesso e impermeabile a
quanto avviene nel mondo circostante, la memoria dell’Olocausto non
serve a nulla, neppure a proteggere gli ebrei, una minoranza che da
settant’anni non subisce più discriminazioni ma viene sovraesposta e
rischia di trasformarsi nel capro espiatorio del risentimento suscitato
dalle politiche neocoloniali dell’Occidente. Questa memoria è unanime
perché non infastidisce nessuno, soprattutto non disturba i principali
responsabili del nuovo razzismo. Se il ricordo di chi fu perseguitato e
offeso venisse usato per denunciare le esclusioni del presente, questo
unanimismo svanirebbe. I giovani «stranieri» che sono nati, cresciuti e
hanno studiato in Italia, ai quali oggi non viene riconosciuta la
cittadinanza, devono osservare perplessi il fervore con il quale, nel
paese in cui vivono, si commemorano le leggi razziali del 1938 che
negavano i diritti agli israeliti. Se l’esclusione degli ebrei avvenuta
ottant’anni fa continua a suscitare tanta indignazione, perché negare la
cittadinanza alle centinaia di migliaia di persone che ne sono escluse
oggi?
Di fronte a questi paradossi, si ha voglia di rimpiangere un’epoca
nella quale gli stati europei non commemoravano l’Olocausto, un evento
che nessun ebreo si sarebbe sognato di considerare «un capitolo
glorioso» della sua storia. Occulto, silenzioso, fatto di un dolore
lancinante ma pudicamente nascosto, il ricordo della Shoah svolse un
ruolo importante, durante la guerra d’Algeria, per ispirare la lotta
contro il colonialismo, mentre Auschwitz era spesso invocato da chi,
come Sartre e Marcuse, condannava i crimini di guerra americani in
Vietnam. È ad Auschwitz che Günther Anders, un esule dalla Germania
nazista, voleva riunire il tribunale Russell. Priva di guardiani, la
memoria della Shoah non possedeva un linguaggio codificato e veniva
custodita da ben poche istituzioni, ma la sua efficacia politica era
probabilmente maggiore e il suo profilo etico ben più universale.
L’appendice di I guardiani della memoria, dedicata alla
semiotica della testimonianza, contiene alcune formulazioni discutibili,
in particolare quelle relative al «carattere interamente ipotetico»
della narrazione storiografica, che rischiano, paradossalmente, di
indebolire la critica delle tesi negazioniste: se la storia delle camere
a gas fosse una ricostruzione «interamente ipotetica», sarebbe alquanto
difficile pretendere che il discorso di Robert Faurisson sulla loro
inesistenza sia una menzogna. Sarebbe utile, a questo proposito,
rileggere una vecchia polemica tra Carlo Ginzburg e Hayden White.
Messa a parte l’appendice, il saggio di Valentina Pisanty sviluppa
un’argomentazione stringente. Scritto con ammirevole intelligenza
critica, una penna tagliente e un’indignazione percepibile ma sempre
controllata, esso scioglie il grumo di contraddizioni di cui è fatta la
memoria dell’Olocausto e ci aiuta a orientarci nel suo labirinto. Si
tratta, soprattutto in questa congiuntura, di un contributo salutare.
Prova che l’intellettuale – una figura pubblica che mette le sue
conoscenze e la sua riflessione critica al servizio della società
civile, enunciando verità scomode – esiste ancora. Ne abbiamo
disperatamente bisogno.
Enzo Traverso, Alias / il manifesto, 26 gennaio 2019
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