domenica 26 gennaio 2020

Lessico per una giornata

Proprio nei paesi in cui la Shoah è stata oggetto di commemorazioni ufficiali e politiche educative, ha suscitato la creazione di musei e memoriali, ispirato numerose opere letterarie e cinematografiche, fino a essere protetta da leggi speciali che prevedono condanne severe per chi osi violarle, proprio qui – è la tesi dalla quale prende le mosse il nuovo saggio di Valentina Pisanty, I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe (Bompiani, pp. 256, € 13,00) – razzismo e xenofobia hanno conosciuto una crescita esponenziale, negli ultimi vent’anni. Qualcosa non funziona.
Difficilmente contestabile, questa diagnosi mostra impietosamente come la memoria pubblica dell’Olocausto si sia trasformata in una macchina ipertrofica che gira a vuoto, finalizzata a preservare sé stessa anziché svolgere una funzione civile, e sempre più sconnessa dai processi di fabbricazione sociale e culturale del razzismo e della xenofobia. Dopo essere stata convertita, come scrive Pisanty, in una «forma narrativa vuota», questa memoria reificata e neutralizzata può prestarsi agli usi peggiori: quelli, per esempio, di chi la brandisce come alibi per potere più comodamente predicare l’odio.
La memoria pubblica della Shoah è cosa diversa dal trauma dell’esperienza vissuta e dal ricordo che ne scaturisce, incarnato dai sempre più rari sopravvissuti dei campi nazisti. Essa ha i suoi «guardiani» – associazioni, istituzioni e personalità regolarmente sollecitate dai media – che ne amministrano le pratiche e le forme. I guardiani parlano in nome delle vittime e gestiscono la posterità di un evento della storia europea che, secondo la formula ormai canonica di Elie Wiesel, possiede una dimensione assolutamente unica e al contempo universale. La singolarità della Shoah, affermava Wiesel parlando a nome degli ebrei, ne fa «un capitolo glorioso della nostra storia eterna», mentre il suo carattere universale impone di preservarne la memoria come un dovere etico, una sorta di imperativo categorico del nostro tempo. Ciò permette di selezionare e riformulare le richieste di riconoscimento pubblico di altri genocidi e crimini contro l’umanità conformandoli al lessico specifico dell’Olocausto, fondato sulla dicotomia normativa tra carnefici e vittime: è avvenuto in Ruanda, dove il nazionalismo hutu è diventato un nazismo tropicale; in Ucraina e in America latina, dove l’Holodomor, la collettivizzazione delle campagne nell’URSS degli anni Trenta, e la repressione delle dittature militari degli anni Settanta sono diventate genocidî; e infine al di là dei Pirenei, dove la repressione franchista è stata ribattezzata dallo storico Paul Preston «l’Olocausto spagnolo».
La gestione dell’Olocausto come un lascito, un’eredità, un bene patrimoniale trasforma i suoi «guardiani» in manager della memoria spesso chiamati a definire i siti destinati ad accogliere musei e memoriali, ad amministrare fondi per l’organizzazione di mostre e viaggi scolastici, a finanziare opere d’arte e restaurare siti o edifici. Talvolta si fanno carico di vere e proprie trattative commerciali, come avvenne anni fa quando le associazioni americane dei guardiani della memoria (a differenza di quelle europee) ingaggiarono un agguerrito team di avvocati d’affari per negoziare con le banche svizzere la restituzione dei beni espropriati agli ebrei fuggiti dal III Reich.
In tempi recenti, la memoria della Shoah è diventata il vessillo delle istituzioni internazionali. Nel 2000, i rappresentanti di quarantasette paesi riuniti a Stoccolma hanno solennemente sottoscritto un testo comune secondo il quale «l’enormità dell’Olocausto deve essere per sempre stampata a lettere di fuoco nella nostra memoria collettiva». Dichiarazioni analoghe sono emanate dall’Unione Europea, dove i crimini del nazismo vengono in genere affiancati a quelli del comunismo al fine di accontentare i nuovi membri provenienti dall’ex blocco sovietico.
Divisa sulle politiche di accoglienza dei profughi, l’Unione Europea è sempre unanime quando si tratta di pauperizzare la Grecia, privatizzare i servizi o commemorare l’Olocausto. Da un lato discute sul modo più efficace di impedire l’esodo di chi fugge guerre e violenza – se necessario finanziandone l’internamento nei campi libici – e dall’altro commemora le vittime dei campi nazisti. Priva di un assetto federale e di istituzioni democratiche dotate di poteri effettivi, l’Unione Europea si sta profilando, dietro la facciata di un Parlamento decorativo, come un mostruoso binomio: l’eurogruppo dei ministri delle finanze affiancato dalle liturgie della Shoah; lo stato d’eccezione neoliberale unito al «dovere della memoria». Non stupisce che, così strumentalizzata e avvilita, questa memoria perennemente invocata non abbia più nessuna efficacia nella lotta contro un razzismo dilagante.
La Shoah, sosteneva Habermas, è il trauma che ha lacerato il tessuto antropologico sul quale poggiava la storia europea. La scelta di fondare la religione civile delle democrazie occidentali sulla memoria di questo evento ha senso se essa viene connessa al mondo di oggi, se viene indirizzata contro le culture e le pratiche xenofobe che si espandono paurosamente nel presente.
Edificata come culto del ricordo fine a sé stesso e impermeabile a quanto avviene nel mondo circostante, la memoria dell’Olocausto non serve a nulla, neppure a proteggere gli ebrei, una minoranza che da settant’anni non subisce più discriminazioni ma viene sovraesposta e rischia di trasformarsi nel capro espiatorio del risentimento suscitato dalle politiche neocoloniali dell’Occidente. Questa memoria è unanime perché non infastidisce nessuno, soprattutto non disturba i principali responsabili del nuovo razzismo. Se il ricordo di chi fu perseguitato e offeso venisse usato per denunciare le esclusioni del presente, questo unanimismo svanirebbe. I giovani «stranieri» che sono nati, cresciuti e hanno studiato in Italia, ai quali oggi non viene riconosciuta la cittadinanza, devono osservare perplessi il fervore con il quale, nel paese in cui vivono, si commemorano le leggi razziali del 1938 che negavano i diritti agli israeliti. Se l’esclusione degli ebrei avvenuta ottant’anni fa continua a suscitare tanta indignazione, perché negare la cittadinanza alle centinaia di migliaia di persone che ne sono escluse oggi?
Di fronte a questi paradossi, si ha voglia di rimpiangere un’epoca nella quale gli stati europei non commemoravano l’Olocausto, un evento che nessun ebreo si sarebbe sognato di considerare «un capitolo glorioso» della sua storia. Occulto, silenzioso, fatto di un dolore lancinante ma pudicamente nascosto, il ricordo della Shoah svolse un ruolo importante, durante la guerra d’Algeria, per ispirare la lotta contro il colonialismo, mentre Auschwitz era spesso invocato da chi, come Sartre e Marcuse, condannava i crimini di guerra americani in Vietnam. È ad Auschwitz che Günther Anders, un esule dalla Germania nazista, voleva riunire il tribunale Russell. Priva di guardiani, la memoria della Shoah non possedeva un linguaggio codificato e veniva custodita da ben poche istituzioni, ma la sua efficacia politica era probabilmente maggiore e il suo profilo etico ben più universale.
L’appendice di I guardiani della memoria, dedicata alla semiotica della testimonianza, contiene alcune formulazioni discutibili, in particolare quelle relative al «carattere interamente ipotetico» della narrazione storiografica, che rischiano, paradossalmente, di indebolire la critica delle tesi negazioniste: se la storia delle camere a gas fosse una ricostruzione «interamente ipotetica», sarebbe alquanto difficile pretendere che il discorso di Robert Faurisson sulla loro inesistenza sia una menzogna. Sarebbe utile, a questo proposito, rileggere una vecchia polemica tra Carlo Ginzburg e Hayden White.
Messa a parte l’appendice, il saggio di Valentina Pisanty sviluppa un’argomentazione stringente. Scritto con ammirevole intelligenza critica, una penna tagliente e un’indignazione percepibile ma sempre controllata, esso scioglie il grumo di contraddizioni di cui è fatta la memoria dell’Olocausto e ci aiuta a orientarci nel suo labirinto. Si tratta, soprattutto in questa congiuntura, di un contributo salutare. Prova che l’intellettuale – una figura pubblica che mette le sue conoscenze e la sua riflessione critica al servizio della società civile, enunciando verità scomode – esiste ancora. Ne abbiamo disperatamente bisogno.
Enzo Traverso, Alias / il manifesto, 26 gennaio 2019 

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