martedì 21 gennaio 2014

Un interprete della civiltà



Clau­dio Abbado si è spento nella sua casa di Bolo­gna, dopo una lunga malat­tia che, alla fine, ha avuto ragione della sua fibra, ormai inde­bo­lita. Fino all’ultimo ha col­ti­vato la spe­ranza di dar vita a nuovi pro­getti, con la ferma con­vin­zione che sarebbe riu­scito ancora una volta a vin­cere la stan­chezza e a salire sul podio. Espri­mere la bel­lezza attra­verso il dono della musica è sem­pre stata, per Abbado, una que­stione di civiltà, prima ancora che l’orizzonte natu­rale della sua espe­rienza di vita.
L’amore per la musica rap­pre­sen­tava infatti il perno dell’esistenza di Abbado, nato a Milano nel 1933 e cre­sciuto in una casa che ruo­tava in maniera vir­tuosa attorno all’attività del padre Miche­lan­gelo, vio­li­ni­sta e pro­fes­sore al Con­ser­va­to­rio di Milano, e allo stu­dio musi­cale dei figli, tutti desti­nati a lasciare un’impronta nella vita musi­cale, tranne il minore, Gabriele, dive­nuto archi­tetto. Mal­grado i disa­stri della guerra e le atro­cità del regime, i geni­tori di Abbado riu­sci­rono in maniera ammi­re­vole a pre­ser­vare l’humus arti­stico di fami­glia e a instil­lare nel gio­vane Clau­dio la disci­plina dello stu­dio e il rispetto per il lavoro. Molto pre­sto, quel ragazzo, allievo per la com­po­si­zione di Gior­gio Fede­rico Ghe­dini e per la dire­zione d’orchestra di Anto­nino Votto al Con­ser­va­to­rio di Milano, comin­ciò a mostrarsi gra­ziato da un cari­sma spe­ciale. Subito gli si aprì la strada per Vienna, dove potè svi­lup­pare il suo talento a con­tatto con arti­sti come Hans Swaro­w­sky e Frie­drich Gulda, in grado di tra­smet­tere in maniera viva e diretta l’esperienza della grande tra­di­zione musi­cale mitteleuropea.
Nel 1958, con sua stessa sor­presa, Abbado vinse il Con­corso Kous­se­vi­tsky a Tan­glewood, in Mas­sa­chu­setts, e le porte per una car­riera inter­na­zio­nale gli ven­nero dun­que spa­lan­cate. La grande svolta tut­ta­via avvenne nel 1968, con la nomina a diret­tore musi­cale del Tea­tro alla Scala. L’arrivo di un arti­sta molto gio­vane, inse­diato a soli tren­ta­cin­que anni alla guida di un’istituzione così rap­pre­sen­ta­tiva, rispec­chiava il pro­fondo ter­re­moto che aveva attra­ver­sato la società ita­liana negli anni Ses­santa. Era una rivo­lu­zione cul­tu­rale di por­tata sto­rica, che avrebbe segnato l’inizio di una fase com­ple­ta­mente nuova nel rap­porto tra il Tea­tro e la città. Le pre­messe ideali della nomina di Abbado tro­va­rono un ulte­riore svi­luppo quando, nel 1972, gli venne affian­cato come sovrin­ten­dente Paolo Grassi, nomina che saldò le diverse anime della vita arti­stica mila­nese. A quel punto il pal­co­sce­nico della Scala si apriva final­mente alla grande cul­tura euro­pea, por­tando a Milano titoli e autori cono­sciuti in pre­ce­denza sol­tanto da una ristretta cer­chia di per­sone e rin­no­vando allo stesso tempo il reper­to­rio tra­di­zio­nale attra­verso una nuova sin­tassi tea­trale. Emble­ma­tico il lavoro su opere emar­gi­nate di Verdi come Mac­beth, Don Carlo e soprat­tutto Simon Boc­ca­ne­gra, un «tavolo zoppo» che Abbado ha saputo ripor­tare in vita per merito anche dello spet­ta­colo memo­ra­bile di Gior­gio Stre­hler, con l’immensa vela sullo sfondo del Palazzo Ducale a evo­care la meta­fora dell’infinita avven­tura della vita.
Gra­zie a Abbado, un’intera gene­ra­zione sco­priva l’esistenza di mondi cul­tu­rali ancora intatti, capaci di par­lare al pre­sente con la stessa forza espres­siva del loro tempo. Il Woz­zeck diretto alla Scala, nel 1971, in un vec­chio spet­ta­colo di Svo­boda e rifatto nel 1977 con un nuovo alle­sti­mento di Ron­coni e Gae Aulenti, aveva il signi­fi­cato, per il mae­stro, di un risar­ci­mento per l’accoglienza inde­co­rosa e vol­gare riser­vata dal pub­blico mila­nese al capo­la­voro di Alban Berg nel 1952. Ma era solo l’inizio della risco­perta della Vienna modern di ini­zio Nove­cento, che Abbado sen­tiva così pro­fon­da­mente nelle sue fibre. Negli anni Set­tanta e Ottanta face cono­scere a Milano le Sin­fo­nie di Mahler e la grande musica del Nove­cento, pro­muo­vendo l’associazione dei musi­ci­sti della Scala in Orche­stra Filar­mo­nica auto­noma, sulla fal­sa­riga del modello dei Wie­ner Phi­lhar­mo­ni­ker, in maniera da svi­lup­pare l’interesse dei pro­fes­sori per il reper­to­rio sinfonico.
Abbado ha sem­pre amato lavo­rare con i grandi arti­sti. Non solo inter­preti del cali­bro di Rudolf Ser­kin, Mau­ri­zio Pol­lini o Mar­tha Arge­rich, ma anche arti­sti pro­ve­nienti da espe­rienze di segno diverso. Il soda­li­zio con un archi­tetto come Renzo Piano, un attore come Roberto Beni­gni o un regi­sta cine­ma­to­gra­fico come Andrej Tar­ko­v­skij rap­pre­sen­tano solo una pic­cola parte dei nume­rosi esempi dell’interesse di Abbado per le idee che pos­sono aiu­tare a miglio­rare l’offerta musi­cale. La gran­dezza di un arti­sta si misura anche nella capa­cità di met­tere il pro­prio ego al ser­vi­zio della musica: Abbado sapeva pen­sare in grande, ma soprat­tutto sapeva ascol­tare. La sua lezione di one­stà arti­stica si svi­luppò in maniera dav­vero ecla­tante quando venne eletto dai Ber­li­ner Phi­lhar­mo­ni­ker diret­tore musi­cale, nel 1989, giu­sto l’anno della caduta del Muro. Ber­lino era una città che respi­rava all’improvviso, ine­briata da una libertà cul­tu­rale impen­sa­bile prima, e Abbado trovò il modo di sfrut­tare que­sta ener­gia intel­let­tuale spin­gendo l’orchestra di Kara­jan verso una meta­mor­fosi arti­stica impre­ve­di­bile e vitale.
Per un’intera gene­ra­zione di gio­vani Clau­dio Abbado è stato molto più che un grande arti­sta e un mira­bile diret­tore d’orchestra: è stato l’eroe di un mondo diverso e più giu­sto, nel quale l’arte e la cul­tura si sup­pon­gono al ser­vi­zio dei valori più alti e non pie­gata a ornare aber­ra­zioni ideo­lo­gi­che o a nascon­dere il carat­tere vio­lento dei rap­porti sociali. La grande cam­pana di Andrej Rublev, che cam­peg­giava nel Boris Godu­nov alle­stito a Lon­dra con Tar­ko­v­skij nel 1983 e che Abbado ha poi voluto al cen­tro della scena nel nuovo alle­sti­mento di Her­bert Wer­nicke a Sali­sburgo nel 1994, rap­pre­senta l’allegoria più auten­tica di que­sto rap­porto indis­so­lu­bile tra arte e vita. Ora che la cam­pana di Rublev ha suo­nato anche per Abbado, tutti noi ci ritro­viamo più soli e smar­riti a vagare in un mondo che ci appare più ostile.
Oreste Bossini, il manifesto, 20 gennaio 2014

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