lunedì 7 marzo 2011

CARO PIDDI'..PERCHE' HAI PAURA DI ME?




intervista a Nichi Vendola, di Angela Mauro

Prendi la Palmiro Togliatti dalla via Prenestina e ti blocchi. È domenica mattina, un grumo di auto ingolfa l’arteria a est di Roma. E pensi che anche questa volta il fenomeno Vendola ha fatto centro: la manifestazione “Cambia l’Italia” al teatro di zona, il Tendastrisce, richiama gente come mosche. Qualche metro più avanti ti devi ricredere, perché il fiume di persone si dimena in realtà verso il solito mercatino domenicale allestito in uno dei piazzali tra nastri d’asfalto di periferia e campagna. Ok, previsione troppo affrettata, evidentemente. Poi però ci arrivi, al Tendastrisce. Nichi Vendola sta parlando di Libia e nel teatro si entra a fatica. Sì, ha fatto centro.

In molti hanno scritto che la manifestazione al Tendastrisce è stata una iniziativa autonoma per lanciare il cantiere del centrosinistra. È così?
C’è una prima doverosa considerazione sulla composizione di quella platea. Non so quale partito oggi in Italia, privo di qualunque mezzo economico e senza rappresentanza parlamentare, possa essere in grado, con una specie di tam tam, di organizzare un evento così straordinario per composizione, qualità e quantità della platea. È come se tutti i popoli della sinistra, più un pezzo di mondo popolare, più una presenza vivacissima di giovani generazioni, abbiano plasticamente rappresentato quale sia la domanda di cambiamento nel paese. Mi pare un ottimo punto di partenza.

Berlusconi è in crisi, eppure è ancora lì e riesce perfino ad allargare la sua maggioranza. Errori e omissioni del centrosinistra?
Rispondo guardando alla domanda che si è manifestata nella società. Quali sono stati i conflitti fondamentali che hanno messo in campo concretamente il tema della fuoriuscita dal berlusconismo? Il conflitto studentesco e giovanile, i ragazzi che si arrampicano sui tetti degli atenei, come a dire che hanno la necessità, a partire dall’istruzione e dalla formazione, di guadagnarsi il diritto a scrutare l’orizzonte del futuro: evidentemente bisogna andare sui tetti per vedere il futuro. E poi: la questione sociale che vive dentro a una miriade di conflitti aziendali e di fabbrica e che ha avuto il suo punto più forte e politicamente rilevante nel percorso che porta da Pomigliano a Mirafiori, dove si è incarnata nello stile e nel paradigma di Sergio Marchionne l’alternativa all’articolo 41 della Costituzione. È Marchionne in sé il nuovo precetto costituzionale della destra liberista.

Vuol dire che, sulla proposta di modifica dell’articolo 41 della Costituzione, prima di Berlusconi viene Marchionne?
Se uno dice che la responsabilità sociale dell’impresa e il rispetto della dignità delle persone sono un impaccio a vivere nell’economia della competizione globale, beh questo è esattamente quello che aveva detto Marchionne. Il terzo conflitto è quello agito dalle donne che disvelano la materialità dell’ideologia, cioè il bisogno di rompere l’egemonia culturale berlusconiana a partire dall’analisi e dalla denuncia di quel mix di sessismo e maschilismo che Berlusconi ha trasformato in una sorta di lingua ufficiale della sua destra ruspante.

Di fronte a tutti questi conflitti, il centrosinistra appare inadeguato. Sono tanti i commentatori che lo sottolineano, esaltando di contro le capacità di Vendola. E parlo di analisti non ascrivibili alla sinistra, per esempio Panebianco sul “Corsera”…
Trovo stupefacente la modalità liquidatoria con cui talvolta veniamo trattati da alcuni leader del Partito Democratico. Viceversa, da luoghi non sospettabili di empatia nei nostri confronti riceviamo un’attenzione analitica intelligente e rispettosa. Penso all’articolo di Ernesto Galli della Loggia, quando sostiene che la mia proposta politica sfugge alle coordinate dello storicismo provvidenzialistico e incrocia il tema della vita: da questo punto di vista, ci riconosce l’autenticità di una ricerca in mare aperto. L’altro è Angelo Panebianco, che considera quello che lui osserva come mix di orecchino e Carlo Marx, cioè l’insieme degli ingredienti che in qualche maniera costituiscono la forma della mia personalità pubblica, non come un rozzo eclettismo ma come uno sforzo di ricostruzione della sinistra nei tempi nuovi. Invece ci troviamo talvolta di fronte a nessuna interlocuzione perché si allestisce una campagna sul leader narcisista, sulle sue affabulazioni favolistiche, sulla sua ossessione per le primarie, sul fatto di essere solo un fenomeno mediatico: tutto questo è un modo di sottrarsi al confronto. Io ho posto una questione e non l’ho posta solo agli altri, ma a me, a tutti: il bisogno di costruire non solo unità, la più larga possibile, ma di produrre innovazione culturale e politica nel senso più forte e pregnante del termine. Le vecchie culture politiche della sinistra non possono ripresentarsi ciascuna come rendita di posizione in un conflitto permanente che è prevalentemente di tipo simbolico e ideologico: i riformisti e il riformismo, i radicali e il radicalismo, ognuno con il suo corredo di bandierine da sventolare. Ma è possibile, amici riformisti, che non ci sia nulla da riformare nel modello di mobilità legato al mito della velocità e dell’auto privata che inquina? E agli amici radicali: possibile che del vecchio welfare non ci sia nulla da mutare in relazione a come sta esplodendo nel mondo la questione del diritto al lavoro e del diritto al reddito per ognuno?

Quindi è questo il senso della frase pronunciata al Tendastrisce: «Sul liberismo non ci avrete mai»? Non è una formula che esclude compromessi con le altre culture del centrosinistra?
Io ho preso sul serio una proposta che mi è apparsa molto segnata dal politicismo, ma che è diventata prevalente nel centrosinistra, da D’Alema a Di Pietro passando per il manifesto. Vale a dire: la proposta della coalizione da Vendola a Fini, coalizione antiberlusconiana, dettata dalla crisi democratica. Io l’ho considerata una strategia velleitaria, se inquadrata in forma di proposta di legislatura, l’ho trovata tatticamente incauta, visto che ogni volta che veniva evocata si metteva in fibrillazione la pattuglia parlamentare di Futuro e libertà. Però poi mi sono assunto le mie responsabilità. Il centrosinistra è il mio luogo e se nel mio luogo tutti dicono “coalizione larga per l’emergenza democratica”, allora io li prendo sul serio e dico: se l’emergenza è democratica, allora indichiamo qual è il recinto dell’azione necessaria da svolgere per riportare l’Italia verso la normalità. E il recinto non può che essere segnato dal tema delle regole: legge elettorale, conflitto di interessi, pluralismo del sistema informativo. Altro non può entrare perché questa è l’emergenza democratica che può veder convergere forze naturalmente antitetiche. E se questo è il recinto, che c’entra un tecnocrate di profilo liberista a governare questa transizione? Ci vuole un politico e Rosi Bindi non solo ha il carisma democratico per guidare questa transizione, ma è anche una donna che ci ricorda che la crisi democratica è anche fatta della violenza istituzionale nei confronti della dignità delle donne. Dopodiché ognuno per la sua strada. Lo dico con un esempio greve e chiedo scusa, ma io e l’amico Andrea Ronchi che ci facciamo nello stesso governo? Lui è un privatizzatore e io sono un ripubblicizzatore dell’acqua: non c’è possibilità di convergere sulle idee di società, di beni comuni, sul modello economico e di sviluppo, sulle politiche sociali e del lavoro.

Un’affermazione che può essere rivolta anche a quella parte del Pd che ha costituito comitati a sostegno della privatizzazione delle risorse idriche…
Le primarie servono a discutere di queste cose in piazza con i cittadini perché formalmente il Pd ha raccolto le firme per l’acqua pubblica, non ha raccolto le firme per il referendum contro la privatizzazione. Andiamo a sentire il popolo nostro. Io sono convinto che sulla difesa dell’acqua pubblica e sull’idea che l’acqua non può essere merce tra le merci si guadagna non soltanto il consenso di tutta la sinistra, ma quello della stragrandissima maggioranza degli italiani. È una battaglia che rafforzerebbe il centrosinistra.

A questo proposito: crede che l’affermazione di Fassino a Torino abbia messo al sicuro le primarie come strumento di selezione di candidati e leader?
Ho sempre pensato che le primarie non fossero un fiocco di neve pronto a sciogliersi al primo raggio di sole. Coincidono con l’immagine del nuovo centrosinistra e sono elemento forte di fuoriuscita da quello che ha realizzato il berlusconismo e cioè una rivoluzione passiva, un modello di privatizzazione della politica. Le primarie sono una ripubblicizzazione della politica. Naturalmente non sono un processo compiuto, ma uno strumento, una leva.

Cosa pensa della proposta di Veltroni di istituirle per legge e per ogni partito?
Istituire le primarie per legge significa intervenire sul capitolo della riforma elettorale, che infatti è uno dei temi da affrontare. Bisogna discutere. Le primarie in un partito sono una modalità di selezione della rappresentanza. Il voto di preferenza è una modalità molto differente. Le primarie sono la selezione dentro una platea più ristretta, il voto di preferenza è la selezione in una platea tendenzialmente universalistica. Però discutiamo, nessun tabù. Purché questa discussione non venga fatta all’insegna della furbizia, della convenienza contingente o di come aggirare i problemi. Non viviamoci gli uni con gli altri come problemi ma come alleati, come arricchimento. Io non solo non ho mai inteso lanciare un’Opa sul Pd ma non so neanche cosa sia l’Italia se non guardo a soggetti politici organizzati e a un popolo sparso di centrosinistra nel cui cuore c’è il popolo democratico. E parlo con loro con spirito di sincerità e verità e con rispetto: lo stesso che mi piacerebbe riconoscere nell’atteggiamento dei miei interlocutori. Ma come? Per una manifestazione come quella di domenica 27 febbraio, l’unica reazione è quella affidata a un responsabile di settore che dice “non prendiamo lezioni sul fallimento del liberismo”?

Stefano Fassina, responsabile economico del Pd.
Sì, non si può discutere così. La sinistra europea, da Tony Blair all’Italia, dalla Spagna alla Grecia, non è stata forse segnata fortemente dall’egemonia liberista? Questa sinistra non ha scelto il culto delle privatizzazioni da un lato e la guerra dall’altro come strumenti di modernizzazione per poi accorgersi che la modernizzazione e la modernità sono nozioni che non sempre coincidono? Quello che sta accadendo nel Mediterraneo è uno schiaffo anche per la sinistra modello Tony Blair, per chi ha pensato che la democrazia e la libertà si potevano esportare non in tutti i luoghi dove venivano violate, ma comunque sempre con gli strumenti della guerra. Così si è prodotto il pantano dell’Afghanistan e dell’Iraq, mentre i popoli i cui dittatori erano amici e complici di tutto l’Occidente, senza bisogno di bombardieri umanitari, hanno schiuso un percorso straordinario, epocale di libertà. E qui non c’è una lezione per la sinistra europea?

Si possono conciliare giustizialismo e garantismo con Berlusconi ancora al potere?
Ogni volta che qualsivoglia potere assume un volto arbitrario e irresponsabile bisogna allarmarsi. Noi oggi dobbiamo liberarci da questa vera e propria malattia che è il nodo politica-giustizia in Italia. Berlusconi evoca problemi veri come quelli legati all’estenuante lentezza dei processi in maniera del tutto strumentale perché non li vuole velocizzare ma sciogliere con l’acido di una permanente delegittimazione. Il delitto principale di Berlusconi non è il “Rubygate”, della cui sostanza penale lui dovrà rispondere in un pubblico dibattimento dentro il processo, e sottrarsi a quel processo e al suo giudice è una violenza nei confronti della nostra idea di legalità e democrazia. Ma il suo delitto principale è aver condannato la generazione dei coetanei di Ruby a vivere il presente in assenza di memoria consapevole del passato e di visione serena del futuro. Il suo delitto principale è sociale, è il blocco e il regresso dell’Italia, la paralisi degli ascensori sociali, la fine del ceto medio, la lievitazione delle forme di povertà e soprattutto la patrimoniale sul lavoro dipendente, sui ceti medio-bassi, perché qualsiasi operaio a 1.200 euro al mese paga percentualmente il doppio delle tasse che paga Berlusconi che ha garantito a sé e al suo ceto una crescita esponenziale della ricchezza, sottraendola al mondo della produzione e del lavoro e trasformandola in finanza. E quando la finanza si autonomizza rispetto all’economia reale è inevitabile il cortocircuito in società.

E sono in cantiere altri “delitti”, come il decreto Romani che mette un tetto alla produzione di energia solare.
È assolutamente oscura la politica energetica di questo governo, anzi chiarissima. La ricetta è di non sottrarsi alla dipendenza da combustibili fossili e usare il tema del fabbisogno energetico per alimentare il più gigantesco circuito affaristico che si possa immaginare: quello legato all’energia nucleare. Il tutto in una realtà in cui anche le energie rinnovabili, che dovrebbero essere – insieme al risparmio energetico – la frontiera vera di un nuovo modello di sviluppo, sono state drogate da un ricorso assolutamente sproporzionato alla logica delle grosse imprese. Invece c’è un altro modello che io voglio promuovere, quello della “generazione diffusa di energia”, un modello fatto di pannelli fotovoltaici sul tetto di ogni casa, di una energia dolce e democratica, la stessa di cui ci parla Rifkin. Ma vedo che c’è pigrizia intorno a questi temi, anche da parte di una certa sinistra.

Tornando al nodo politica-giustizia, che ne pensa di ricette come il ritorno all’immunità parlamentare, fin qui proposte dall’Udc ma anche da singoli del Pd?
È difficile discutere ora di queste questioni. Il conflitto che Berlusconi ha attivato con il Parlamento, umiliandolo con la compravendita di deputati e senatori, il conflitto che ha aperto con la giustizia, ritenendosi sovrano premoderno non sottoponibile al controllo di legalità, credo abbiano avvelenato i pozzi e impedito una discussione sul merito delle questioni. Berlusconi è la pietra sepolcrale che ostruisce il cammino alla riflessione e a una riforma della giustizia. Il garantismo resta una delle bandiere più belle della sinistra, che pure si è lasciata tentare dal diavolo giustizialista, immaginando che ci potesse essere una riforma della società frutto della potenza delle inchieste giudiziarie. Nel frattempo, la destra si è impadronita di quelle bandiere, producendo però un garantismo peloso e oggi noi ci troviamo di fronte a una società ottocentesca anche dal punto di vista del formalismo giuridico: giustizialista con i giustiziati e garantista con gli iper-garantiti. Il fatto poi che nel dibattito su questi temi non si faccia il minimo accenno alle condizioni di 70mila detenuti nelle carceri è davvero segno di barbarie e assuefazione ad una situazione che ci è costata varie condanne dalla Corte di giustizia europea. Dunque, chiedermi dell’immunità parlamentare ora è come chiedermi che ne pensi dell’abuso delle intercettazioni: è una porcheria, ma è difficile aprire una battaglia perché quello che Berlusconi intende fare è sterilizzarne l’uso non l’abuso.

Tutti questi ragionamenti sbattono contro il rischio che non si torni a votare in primavera…
Non ho mai costruito la mia politica come se fosse chiromanzia. Dall’inizio ho sempre sostenuto che c’è una crisi organica e strutturale del centrodestra e una crisi di credibilità delle nostre classi dirigenti. Mi sono messo in gioco per far passare il messaggio che è necessario giocare una partita che non sia tutta chiusa nei palazzi, ma aperta nella società, nei movimenti, nelle “casematte”, come direbbe Gramsci. Una grande battaglia non legata ad un anti-berlusconismo vissuto come tirannicidio, ma come capacità di prefigurare una credibile e forte alternativa di governo. È questo che serve. Se si muove una battaglia tutta parlamentare scommettendo sulle defezioni dell’esercito opposto e poi questo non avviene, si corre il rischio che la propria gente venga presa dallo sconforto. Ecco perché è importante guardare alle vertenze dei movimenti, alle ansie e alle domande dei territori proprio perché per noi la politica non è un talk-show.

Al Tendastrisce ha detto che se dovesse ritirarsi, le cose che dice dovrebebro restare patrimonio collettivo. Non ha mica intenzione di uscire di scena?
L’ho detto perché non voglio essere visto come un esercizio autarchico con poteri divinatori, ma come una possibilità che si è determinata per sconfiggere il centrodestra e anche la cattiva politica del centrosinistra. Questo mi ha fatto diventare un leader, penso che così si possa costruire una cultura politica adeguata alle sfide del XXI secolo, senza recinti, steccati, ideologie paralizzanti, paraocchi.

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