Una buona politica comincia da una buona lingua, una lingua semplice, dolce, incantata. Non si sente questa lingua nella politica italiana. Si sentono frasi opache, generiche, senza carne, le frasi di una politica tesa a conservare un potere che non ha o a prendere un potere che non c'è. Le prossime elezioni rischiano di diventare un gigantesco processo alla casta, un processo che porterà molte facce nuove in parlamento ma poche novità nei meccanismi profondi che muovono la società.
Bisogna dire cose inequivocabili come lo stop al consumo di suolo o alle spese militari o ai privilegi alla chiesa cattolica. Ci vuole una lingua che non aggiunga confusione alla confusione, conformismo al conformismo.
Che senso ha continuare a parlare della crescita, quando si sa che è una strada senza uscita e che porta benefici di gran lunga inferiore ai danni che produce? Che senso ha contestare la penosa avarizia dei nostri parlamentari senza considerare un modello economico completamente fuori dallo schema produzione-consumo?
La modernità è finita, sembra che solo le forze politiche non se ne siano accorte. Per governare una società che ha in testa un modello che non funziona non si può riproporre lo stesso modello, bisogna avere il coraggio di immaginarne un altro, anche se può richiedere tempi lunghi per essere costruito.
La modernità nel tempo della sua fine non crea solo problemi, ci dà anche squarci utili. Tanto per citarne uno, ci fa vedere i benefici che potrebbe avere un modello di riattivazione della ruralità e della specificità dei luoghi. La civiltà contadina prima della modernità era una civiltà violenta e meschina, che annoiava la vita dei pochi agiati e lacerava la vita di tutti gli altri. Paradossalmente adesso non sarebbe così. Adesso, solo per fare un piccolo esempio, si può fare un orto per produrre cose da mangiare e nello stesso tempo per dare nuova linfa alla vita comunitaria. Si può ripartire dalla terra, coniugando il computer e il pero selvatico. Si può partire dall'idea di rivitalizzare i centri storici dei piccoli paesi, quasi tutti agonizzanti, ci si può ricordare che l'Italia è fatta in gran parte di montagne. E invece la lingua ristagna intorno alla crisi e alla necessità della crescita come unica via per uscirne. Politica e antipolitica in questo sembrano non discostarsi molto, come se la fuga dalla realtà fosse il collante per tenere insieme un sistema in cui l'alternanza non è tra proposte diverse. Politica e antipolitica danno vita ogni giorno a uno stucchevole teatrino che mette in discussione gli attori in scena e non la regia dello spettacolo, non la sua ideologia di fondo.
Questa messa in discussione non può non avvenire anche sul terreno della lingua e su questo terreno gli scrittori dovrebbero farsi sentire, magari partecipando attivamente alle prossime elezioni. Quando qualcuno annuncia la volontà di candidarsi, subito viene fuori l'idea che la politica è sporca, che bisogna fare il proprio mestiere, che bisogna fare politica scrivendo buoni libri.
Mi pare uno schema vecchio, uno schema modernista. La letteratura e la politica non sono un mestiere. Lo scrittore non è un elettrauto e il politico non è un imbianchino. La cultura e la politica dovrebbero offrire cornici linguistiche e legislative entro cui le persone possano scegliere il loro abitare il mondo.
Non si può andare alle prossime elezioni senza scardinare questo meccanismo in cui ogni posizione, politica o antipolitica, ha solo la forza di rendere più povera la posizione opposta alla propria.
C'è da impegnarsi subito pronunciandosi con nettezza, pronunciando la propria visione, e questo, prima degli altri, dovrebbero farlo gli scrittori e gli intellettuali in genere. Attraversare i paesi, i volti, le macerie con un linguaggio carnoso e civile, questo fa la differenza. Toccare i margini geografici e umani, le montagne e le rovine. Un agire politico che non parta dal centro, ma dai paesi sperduti, dai luoghi senza potere, dalle vite sfinite.
Non è la casta il nemico da abbattere, ma un capitalismo sempre più cieco e verminoso, un capitalismo che non si lascia inumare perché ha impiegato gli ultimi decenni della sua vita a dare l'idea che era l'unico mondo possibile.
Andiamo alle elezioni per seppellire questa salma, riconoscendone magari anche qualche lontano merito, ma ben convinti che il mondo ha bisogno di un'altra politica e di un'altra economia e forse anche di un'altra letteratura.
Franco Arminio, il manifesto, 13 giugno 2012
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