Alla Casa di Riposo di Solferino oggi compie cent’anni in discreta salute Gottardina Zanaglio, detta Dina, una delle ultime partigiane in vita della leggendaria Brigata Perlasca.
Originaria di Forno d’Ono, Dina aveva 18 anni quando all’osteria del padre Antonio dopo l’8 settembre giunsero diversi ufficiali slavi fuggiti dal “Cunvintì”, il campo di concentramento di Vestone, in attesa di chi li avrebbe condotti verso la Valcamonica per andare in Svizzera.
A ottobre il comandante Giacomo Perlasca, accompagnato da Pietro Ebenestelli (fra i responsabili delle future Fiamme Verdi in Valsabbia) si incontrò nella scuola elementare del paese con sua sorella Lucinda, maestra, chiedendole aiuto per sgomberare questi militi e ottenne le chiavi di casa Zanaglio dove nascondere volantini e giornali clandestini. Poi chiese a Dina la disponibilità a fare da staffetta, ma suo padre lo impedì considerandolo troppo pericoloso. In quei mesi Dina recapitava biglietti cifrati con informazioni su persone che desideravano entrare nei partigiani, ma della cui affidabilità si avevano dubbi.
Nel luglio 1944 fu protagonista di un episodio drammatico. Nell’anniversario della caduta di Mussolini i ribelli avevano occupato il paese proclamandolo libera repubblica. Il partigiano Cucciolo dal telefono pubblico di Ono Degno fece una chiamata offensiva al comando fascista di Vestone. La reazione non si fece attendere: casa Zanaglio fu circondata e perquisita dai fascisti alla ricerca di materiale compromettente; in caso positivo sarebbe stata data alle fiamme. Dina ebbe la prontezza di fingere un malore, defilarsi lesta, raccogliere giornali, coccarde e volantini e buttarli nel cesso. Non fu trovato niente, ma l’osteria venne chiusa e la casa saccheggiata. Per 15 giorni la famiglia, benvoluta da tutti, visse di carità, finché un compagno diede al padre 50 mila lire per ricominciare la sua attività.
Dopo quell’episodio Dina e Zelinda vennero arrestate e trasportate all’albergo Milano di Idro. Dopo 15 giorni Zelinda, 14enne, fu liberata mentre Dina fu portata a Canton Mombello. Intanto in paese i fascisti inviavano le cartoline precetto ai giovani in età di leva: chi non si fosse presentato sarebbe stato considerato come disertore e passato per le armi. Dalla sua osteria il padre assicurò che avrebbe diffuso la notizia ai clienti e ricordò all’interprete altoatesino dei tedeschi che “la sua bambina” era in carcere a Brescia: il giorno successivo fu riportata a casa e continuò la sua attività nelle file della Resistenza fino al 25 aprile.
Nel dopoguerra le fu conferito il titolo di partigiana combattente con concessione della Croce al Merito di Guerra.
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