mercoledì 27 aprile 2022

Da un campo-profughi bosniaco

La salda educazione alla mondialità ha portato ancora una volta Cecilia Spassini lontano da casa.
Dal giugno scorso la 25enne calcinatellese opera nel campo-profughi di Lipa, a 30 km da Bihać, nel nord-ovest della Bosnia-Erzegovina, vicino al confine croato.
Al lavoro con l'Istituto Pace Sviluppo Innovazione delle Acli, la giovane organizza e svolge attività psicosociali per i rifugiati in questa struttura.
“Qui . racconta - siamo in mezzo alle montagne. Fino allo scorso novembre gli abitanti del campo erano uomini soli, poi si è aggiunta una sezione dedicata alle famiglie. Gli uomini rimangono comunque la grande maggioranza, in questo momento sono poco meno di 400”.
Diverse le nazionalità: “prima di tutto Afghanistan, ma anche Pakistan, India, Bangladesh, Nepal, Burkina Faso e ultimamente stanno arrivando anche tanti cubani”.
“Le persone - spiega Cecilia - si trovano qui in attesa di intraprendere il cosiddetto 'game', ovvero l’attraversamento dei confini per arrivare in Europa. Si chiama game perché è proprio come un gioco, una questione di fortuna: nel migliore dei casi, i migranti riescono ad arrivare in Italia, Spagna, Francia o Germania; altrimenti, possono essere intercettati dalla polizia croata che, molto spesso violenta, li costringe a tornare indietro. Si tratta di “un’esperienza molto traumatica per loro: spesso camminano per chilometri con poco cibo, si feriscono e, se incontrano le polizia, vengono picchiati, vengono rubati loro soldi, telefoni, vestiti o le poche cose con cui viaggiano”.
“Una ragazza nepalese - ricorda - mi ha raccontato che la polizia le aveva rubato delle medicine che prendeva da anni per i suoi problemi alla tiroide; un altro ragazzo, un pakistano di nome Kamal, mi ha detto che gli agenti gli avevano preso e bruciato il passaporto. 'Li ho implorati di non farlo, erano i miei documenti. Ora è come se non avessi identità, non sono nessuno', mi ha detto. E tante altre sono storie simili”.
“Molti fuggono da persecuzioni religiose o etniche, da violenze familiari, oppure da situazioni di estrema povertà” informa. “Quelli invece che si trovano nella situazione 'migliore' partono con un sogno in mente, come succede per tanti giovani italiani. La differenza è che noi abbiamo la possibilità di partire e andare in Australia, in Inghilterra, in Germania con il nostro passaporto. Per i pakistani, gli afghani, gli indiani, i cubani questo è impensabile; non c’è altra possibilità che viaggiare illegalmente e subire violenze”.
“Nonostante ciò - sottolinea – i profughi che vivono nel campo sono sempre contenti di parlare con chiunque li ascolti; hanno molto da raccontare e tante storie diverse da condividere”.
“Le attività che preparo - spiega - hanno l'obiettivo di permettere a queste persone un momento di svago, nel quale non pensare ai loro drammi. Ogni giorno riusciamo a coinvolgerle in tornei sportivi, laboratori di pittura e cucito, lezioni di inglese e italiano, cineforum. C’è tantissima partecipazione e a sera siamo soddisfatti, anche perché riceviamo l'apprezzamento dei nostri beneficiari”.
“Le persone che passano dal campo di Lipa sono le stesse che arrivano in Italia, e che ci capiterà, prima o poi, di incontrare” aggiunge. “Dobbiamo quindi cercare di essere sempre accoglienti, ascoltare e provare a comprendere quello che può aver trascorso dopo aver lasciato il proprio paese e i propri affetti”.
E conclude con una riflessione sull'attualità: “E' sicuramente giusto recare aiuti ai rifugiati ucraini che stanno scappando in questo momento dalla guerra, ma ricordiamoci anche di tutte le persone che fuggono da altri conflitti o da tante situazioni drammatiche e che non vengono trattate come esseri umani: nessuno va dimenticato".

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